Tre mostre -molto diverse una dall’altra- in uno spazio espositivo autorevole sono una ghiotta occasione per ogni affezionato spettatore dell’arte contemporanea. Massimo De Carlo ha presentato al pubblico una scelta di artisti più o meno giovani, cui ha dedicato, disponendoli per piani, una personale ciascuno.
Partiamo dall’alto, da Armin Linke (Milano, 1966), che si guadagna non solo la vista panoramica, ma anche la palma per aver realizzato il lavoro più appagante: una serie di still life che si svolgono su due registri. Su quello superiore emergono immagini che descrivono, con fotografia impeccabile, le situazioni più disparate: dall’investitura dei cardinali a San Pietro, a situazioni erotiche, fino ad un semplice paesaggio immerso nell’arsura estiva. Contesti a cui s’oppone il secondo registro, generalmente disposto nella sezione inferiore dell’opera e rappresentato da una fascia completamente bianca, che rompe, astrae, violenta -seppur completa- il resto della composizione. Con un’attenzione ai volumi e ai contrasti cromatici quasi pittorica, stravolgente per il nitore e la luminosità con cui le diverse figure vengono accostate.
Ci azzecca anche Paul Chan (Hong Kong, 1973), ospite del livello intermedio della galleria, con un’installazione che combina una componente puramente oggettuale -una tavola – con una griglia creata da un rapporto violento tra luce e ombra. Ottenuto con l’ausilio della proiezione di raggi colorati che percorrono tutto lo spettro cromatico fino al nero assoluto. Operando, quindi, per sintesi sottrattiva.
La struttura che si viene a creare, perfettamente ortogonale, che rivela uno studio attento delle geometrie chiamate in causa, tradisce la propria austerità con l’intromissione di elementi di disturbo.
Ombre di corpi estranei: animali, oggetti, silhouette umane fluttuano, come elementi sospesi in una dimensione ultraterrena, all’interno delle finestre di luce della scacchiera orchestrata da Chan. Come risucchiati da un gorgo misterioso, di cui non ci è dato individuare l’origine.
Bisogna scendere all’ultimo piano per capire che strafare non è mai un bene. Non è chiaro quale oscuro motivo abbia spinto De Carlo ad introdurre il circuito espositivo con il collettivo austriaco Gelitin e i suoi annichilenti Strozzi Pappolozzi, bassorilievi realizzati in plastilina, lavorata manualmente, e stratificata sulla superficie di base per accumulazione. Fino a creare delle forme -dalle tinte e gli intenti che molto ricordano le tendenze pop made in Usa- che conservano, simulando con gesto semplice ed immediato situazioni riconoscibili, un legame forte con la realtà. Parafrasata con il tentativo di formulare un’arte eversiva, critica (nei confronti della società), ma spensierata.
Tre aggettivi, insomma, che insieme risultano quasi paradossali. Chi è ritornato da De Carlo dopo aver ammirato nel 2004 l’installazione Otto Volante del medesimo gruppo, ha avuto una triste sorpresa. Chi ci è passato per la prima volta è rimasto forse di sasso. Perché, diciamocelo, i Gelitin, con Chan e Linke, ci stanno un po’ come i cavoli a merenda.
santa nastro
mostra visitata il 14 febbraio 2006
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MI CORREGGO --- SI CHIAMAVANO GELATIN... MA DA POCO SI FANNO CHIAMARE GELITIN... QUINDI è GIUSTO COSì...!
PLEASE
ho già avvisato Santa.. vanno corrette due parole... non si scrive GELITIN... ma GELATIN..
ciao.
e´sempre lo stesso ..budin..