La personale di
Robin Kirsten si apre inaspettatamente con dipinti di piccolo formato, simili tra loro sia nei colori che nelle forme. Le composizioni possono ricordare ritratti stilizzati, tra avatar ed emoticon, e paesaggi spaziali e alieni, mentre i colori scivolano dal rosso al viola, dal caldo al freddo. Queste ambivalenze rendono le immagini simili ad allucinazioni, fra trip psichedelici, organismi unicellulari e pianeti interi in rivoluzione. Anche la processualità dietro il lavoro di Kirsten spazia da una fredda elaborazione al computer a un intervento più caldo, prima con l’aerografo e poi con pittura a olio.
Questa consapevolezza decisamente postmoderna introduce a un’ironia che pervade tutta la mostra. Per cominciare, Kirsten ha voluto trasformare (o almeno suggerirlo) lo spazio della galleria in una boutique di lusso, alterandone l’illuminazione e aggiungendovi del profumo. La piccola dimensione dei quadri evidenzia inoltre il loro status di oggetti, mentre la sproporzione fra lo spazio semivuoto del white cube e la loro fisicità ne accentua la preziosità.
Infine, per dare un tocco più dissacrante ed esplicito a quest’ironia di fondo, l’artista inglese è intervenuto con bombolette spray sulla superficie di alcuni quadri, inizialmente esclusi dalla mostra, scrivendovi sopra frasi come “Buy me” e “Not me”.
Ma se l’ambiguità visiva e processuale dei dipinti è qualcosa di sottile, quest’ultima aggiunta (per quanto crei un bel contrasto) può risultare come l’impaziente sottolineatura di uno scherzo iniziato con calma, come il gesto isterico di chi deve affrontare, volente o nolente, il mercato dell’arte. L’impronta stilistica di Kirsten viene così oscurata in favore del violento grido sommerso per l’autoaffermazione economica, e le sue carte vengono scoperte a metà partita.
La critica interna all’arte, soprattutto se rivolta ai suoi meccanismi economici, non è cosa nuova, ma ciò che colpisce in questo caso (e che, a seconda dei gusti, potrebbe essere intrigante o fastidioso) è l’accelerazione dello scherzo-boutique, la caricatura estrema affiancata ad accorgimenti sottili come luci e profumo, che rischiano così di essere sminuiti per contrasto. Non è più chiaro, insomma, se l’oggetto della personale siano i dipinti, lo spazio boutique della galleria o l’ironia che vi è sospesa.
Nel secondo e nel terzo caso, la processualità e la poetica dei lavori di Kirsten verrebbero ridotti ad accessori, in modo simile a quando, nel padiglione tedesco della Biennale di Venezia del 2005, le sculture di
Thomas Scheibitz non potevano più essere viste in maniera neutrale dopo esser state coinvolte nel balletto
This is so contemporary organizzato da
Tino Sehgal. Ma mentre il sarcasmo di Sehgal sfidava il sistema dall’interno, l’autoironia di Kirsten sembra più un sintomo d’insicurezza.