Oltre ai soggetti scelti, la modernità delle opere in mostra alla Triennale Bovisa sta nella varietà di stili e materiali, nella loro stravaganza, ma anche nella loro democraticità.
È quest’ultimo il caso di
Untitled di
Burak Delier, la foto di una donna dagli occhi sbarrati, per il resto tutta velata con una bandiera europea; l’opera si presenta sotto forma di manifesto moltiplicato nove volte, a testimonianza della sua storia espositiva, divenuta anch’essa arte: dal rifiuto da parte delle gallerie all’affissione sui muri di Istanbul. Con semplicità, l’artista esprime un sentire comune: l’ingresso in Europa come insieme di costrizioni e perdita d’identità, piuttosto che come vantaggioso traguardo.
Un genere assai rappresentato è quello della videoarte, in cui si segnala
Men Crying di
Gülsün Karamustafa: la condizione universale dell’abbandono si esprime nelle vicende di tre uomini in tre video paralleli, nei quali la Turchia si riconosce per piccoli dettagli, come l’immancabile ritratto di Atatürk.
Se alcune opere si distinguono per lo sperimentalismo e per una misurata irriverenza, come
Twin Brother di
Genco Gülan, due frigoriferi contenenti fialette con materiale genetico dell’artista stesso, un’altra dominante è quella estetica, che si manifesta nella ricerca di equilibrio compositivo e nel lavoro sulla qualità dell’immagine. La purezza delle torri di
Mürüvvet Türkyılmaz, che richiamano alla memoria le
Anonyme Skulpturen industriali di
Bernd e
Hilla Becher, si affianca all’essenziale simmetria della stampa-scultura
Hustle and Bustle di
Murat Morova.
Benché non si tratti di opere puramente e direttamente narrative, ma spesso di opere-allegoria, attraverso le quali gli artisti suggeriscono un messaggio, non si incappa in un intricato concettualismo. Si riflette piuttosto in quest’arte l’interesse diffuso fra i giovani turchi per la grafica e per il design: la qualità estetica va di pari passo con la funzionalità espressiva.
Il paradisiaco
Panorama 2 di
Başir Borlakov, fatto di dolci pendii che sfumano all’orizzonte, contornati da muraglie rocciose, sembra in un primo momento invitare a una gita, ma l’invito è funzionale a una denuncia che non si serve di grida “allo scandalo”, ma passa attraverso l’eleganza dell’arte fotografica.
La lotta alla violenza e alla discriminazione sessuale si fa più esplicita nella sezione apertamente femminista: la Sala Verde, dedicata a
Pippa Bacca, l’artista italiana violentata e uccisa nei pressi di Izmir. Si presentano qui, attraverso video, fotografie e sculture, donne costrette a scappare, a esser sotterrate vive, a morire dentro nascoste sotto un velo. Sono opere di artiste che documentano, criticano, confidano nel cambiamento, anche soltanto erigendo un monumento di stoffa leggera alla libertà e alla speranza. Donne che, come
Gül Ilgaz in
Hold on to, invitano altre donne a tener duro e intanto andare avanti.