Gli artisti protagonisti delle mostre ospitate nelle due stanze contigue della Marella Gallery sono connazionali. Nella prima troviamo i lavori di Juliana Ortiz (Osnabrück, 1976; vive a Leipzig), nell’altra quelli di Andreas Hildebrandt (Dresda, 1973). Entrambi hanno esposto principalmente in Germania e questa è la prima personale italiana per tutti e due.
Juliana Ortiz, più giocosa nell’attitudine e versatile nei mezzi (principalmente pittura e installazione, con un video), attinge a un immaginario domestico e fa uso d’immagini consuete, che spesso ribalta o decontestualizza. Le sue sono piccole variazioni del quotidiano che, complice l’allestimento un po’ affollato, contribuiscono -forse anche per limitazioni spaziali- a dare all’esperienza della mostra una dimensione domestica e la connotazione di piccolo mondo privato.
Con uno sguardo stupito, rivolto agli oggetti più comuni e affascinato dal loro potenziale ludico, Ortiz va curiosando in un mondo di figure sagomate e strumenti musicali. I giochi che propone invitano a una complicità che, più che dalla scarsa sensualità della sua pittura, è conquistata dalle idee. Un gomitolo disegnato il cui filo sporge dal muro, una ragazza che dorme tra coperte inchiodate a una parete. Nonostante la dimensione intima e personale, non c’è ombra di sessualità né alcun ammiccare lascivo alla
Tracy Emin. Gli scherzi di Ortiz sono semplici e anche la sua estetica è soffusa di un’ingenuità infantile, piuttosto delicata, da illustratrice.
Il linguaggio di
Andreas Hildebrandt è, invece, puramente pittorico. La realizzazione dei suoi quadri è spesso sfasata nel tempo: ciascun intervento corrisponde a uno strato e a un livello di astrazione, di espressività differente. Il punto forte della sua pittura sta nella composizione e nell’uso di registri espressivi diversi. Fondi puliti, geometrici e regolari sono a tratti coperti da paesaggi figurativi e forme tridimensionali, e infine sfregiati da pennellate un po’ isteriche, dai colori poco seducenti, verdini o marroncini sottoboschivi.
Il risultato è un pout pourri compositivo, di solito centrato su un punto di fuga che fornisce una maggiore dinamicità al tutto. A tratti una sorta di aeropittura espressionista, a tratti l’evocazione di bug informatici, le composizioni pittoriche di Hildebrandt ricordano per certi aspetti alcuni lavori di
Albert Oehlen, nel mischiare figurativo e astratto. L’impatto dei quadri più grandi è molto efficace, quelli più piccoli sono invece poco attraenti.
La visita delle due mostre fa sorgere il dubbio che quella di Ortiz venga un po’ sacrificata, privata di un’articolazione espositiva che il suo carattere, più tematico rispetto all’astrattismo di Hildebrandt, avrebbe forse preteso. La video-installazione posta in cima alla rampa che porta agli uffici della galleria, per esempio, è penalizzata da un’illuminazione che viene subita invece che partecipare alla resa dell’opera.