Una
Retrospettiva che abbraccia quarant’anni di produzione artistica. Una mostra ideata e curata dallo stesso autore,
Olivier Mosset (Neuchâtel, 1944; vive a Tucson), che indaga se stesso nella metamorfosi di una ricerca attenta, complessa, fatta di sperimentazione e slanci inediti.
Un percorso espositivo estremamente dialettico, che dagli anni ‘60 approda ai primi anni ‘70, arco di tempo segnato prevalentemente dal rigore di tele bianche squarciate dal nero di cerchi sempre diversi gli uni dagli altri, e però in prima analisi identici. Una lunga traiettoria fatta di segmenti impegnati senza sosta a esaltare scoscese e immense ipotesi di ricerca.
Da questa carrellata di forme in mutamento si procede fino al termine degli anni ‘80-primi ’90, con interessanti confronti fra l’astrattismo più radicale (si vedano le opere
Juke del 1990 e
Corporate del 1986) e, di contro, l’uso reiterato della monocromia, che rappresenta una virtuosa costante nello studio di Mosset. Insomma, un piacevole viaggio attraverso l’opera di un grande artista, da decenni impegnato in studi senza confini.
Un cammino attraverso le sale della Galleria Massimo De Carlo, allestite secondo un minimalismo estremo, utile opportunamente a conservare l’assoluto protagonismo di opere in larga parte di grande formato: si pensi alle quattro tele inedite realizzate ad hoc, in cui trionfa la pittura materica.
Il visitatore si trova perciò davanti a una vastità di proposte semantiche, che indagano i misteri di un’autoriale ricerca artistica sempre mantenuta sul filo di esigenze concettuali. Segni, cromatismi, forme, luci, ombre, tecnica: tutto concorre a generare un’immensa sinfonia del visivo e di quanto ancora non è dato vedere. Siamo oltre. C’è un’atmosfera di sospensione rituale: tutto è come non potrebbe essere altrimenti. E non ci sono perché, domande, risposte. Regna il silenzio più assoluto. Tutto ha un senso sconfinante oltre il concettuale.
È l’“oltre” il leitmotiv: oltre le forme, oltre il colore, oltre il concetto e la sperimentazione. Oltre il quadro, il soggetto, l’immagine che diventa scultura. Oltre il quadro che assume presenza nello spazio e in esso si fonde in un moto senza tregua, mentre tutto resta apparentemente pietrificato. Come nell’ultima sala che chiude la mostra, dopo una lunga sequenza di esplosioni cromatiche, con una tela total white che misteriosamente si confonde col soffitto. Diventando orizzonte metafisico.
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Quando la museografia reazionaria diventa trasgressione. Non capisco perchè De Carlo, ogni tanto, non si possa rilanciare nella mischia. Lo fece con quella parata teatrale l'anno scorso, ma sempre con un piglo esterofilo. Peccato.