Non cerca le grandi dimensioni né il clamore il lavoro di
Maia
Sambonet (Milano,
1981). Che invece entra in punta di piedi, con discrezione, nell’immaginario
dello spettatore, come sulle superfici su cui va a intervenire.
La personale milanese nella Galleria Alessandro De March
traccia l’arazzo delle sue geografie decostruite, intrappolate in riquadri dal
formato ridotto, in grado però di aprire innumerevoli finestre su mondi cui
solo l’artista sembra poter accedere. Taccuini per appunti di un viaggio
introspettivo, sui quali Sambonet traccia note ai margini di figurette umane e
non, protagoniste di avventure ai limiti del surreale.
Il rapporto con lo stile e la celebrazione del disegno,
come tecnica d’eccellenza, non sono estranei a un percorso che, tuttavia, non
tende alla conservazione. È vero che l’artista serba nel cuore i codici della
pittura. Non a caso, i suoi supporti dichiarano un’origine ortodossa, una
frequentazione assidua del cavalletto, quando rivelano le squadrature di
memoria paoliniana, quando scoprono nell’incrocio delle diagonali il passaggio
del compasso (
Radar #15), quando le parole, seppur affrancate dal ruolo di didascalia, sono
incorniciate in un severo cartiglio, che tuttavia spesso si trasforma in
esplosivi cunei di sapore costruttivista.
Ma nonostante quest’affezione militante a una formazione
accademica, l’artista non esita a mescolare con assoluta indipendenza
procedure del tutto differenti. Al bozzetto, infatti, si affianca la
paroliberistica, con un approccio che non può fare a meno di ricordare le norme
di un certo tipo d’illustrazione “colta”, ma anche alcuni sviluppi
della poesia visiva. Non mancano presenze “dada” realizzate a collage
(
Radar #10),
dove l’inserto sta a suggerire l’unico elemento in grado di ricondurre al
reale, in un amplesso di percezioni, proiettato nel limbo bianco della
superficie, che funge da cornice, ma anche da luogo del naufragio.
Laddove il segno lieve non dovesse bastare a identificare
una mano femminile, Sambonet inserisce intere tracce a ricamo, che stabiliscono
un ulteriore raccordo con il reale nella sostanza, ma che convalidano il
desiderio di astrazione, di costruire attraverso geometrie impossibili luoghi di
speculazione filosofica, in cui
détournement è la parola d’ordine (
Untitled
(Unsettlement))
e dove i percorsi
lineari della grafite sulla carta “incarnano” le onde, normalmente
invisibili, rilevate dai
radar, cui il titolo inevitabilmente riporta.
Osservando attentamente i lavori di Maia Sambonet non si
può fare a meno di pensare a una delle ultime fatiche del collega più anziano,
Pavel
Pepperstein:
Victory
Over the Future,
meta-mostra del Padiglione Russo alla 53. Biennale di Venezia.
Le atmosfere fantascientifiche, l’uso osservante degli
artifici del disegno, la costruzione di universi paralleli, avvalorati
ulteriormente dall’uso attento della parola, avvicinano notevolmente la ricerca
di questi due artisti. Anche laddove l’uno prediliga la figurazione e l’altra
invece la declini in favore della geometria e delle sue affascinanti trame.