Non
ha certo l’
horror vacui Matteo Guarnaccia (Milano, 1954). E si vede. Opere fitte, le sue, zeppe. Di
colori, segni, riferimenti. In primis a se stesso, e a quei “formidabili anni”
che hanno segnato profondamente il suo brulicante
melting pot visivo. Un gaio minestrone
universale, dove si mescolano geografie ed epoche, gli idoli indù vanno a
braccetto coi romanzi cavallereschi, il gotico viene intinto nell’acido
lisergico e il fumetto
d’antan intrecciato allo
slang rockettaro.
In
tanto scompiglio, un po’ di spazio per l’attualità si trova sempre, specie se
si può scoccare qualche frecciatina alla politica. Bell’e servita all’ingresso,
nella tela che raccoglie alla rinfusa un po’ di
topoi meneghini, shakerati con la
cronaca più o meno recente: la bomboletta dell’ordinanza anti-graffitari; un
kebab reso ancor più appetitoso dal proibizionismo; il Duomo aggredito da un
istrice i cui aculei, in una strana metamorfosi, si mescolano alle guglie; il
Pirellone vacillante; gli onnipresenti piccioni e un bel
Leonardo che pedala fischiettando.
L’immaginazione
al potere, dunque, o una sapiente rielaborazione di repertori? In ogni caso,
l’autore può riproporre a buon diritto, senza l’obbligo di contemporaneizzarli
né di rimpiangerli, i retaggi di una temperie
underground di cui è stato attivo
protagonista.
Di taglio storico è infatti la
tranche dell’esposizione che ripercorre
l’avventura di “Insekten Secte”, “foglio” autarchico e anarchico che Guarnaccia
ideò a soli 15 anni e portò avanti per altri sei, sfornando 17 numeri
all’insegna del più puro e pazzo artigianato.
L’allestimento
nel “bozzolo” di un sacco a pelo, altro emblema generazionale, con le
pubblicazioni che nascono dalla crisalide trapunta di farfalle, ricorda come il
processo di trasformazione dell’allora
controcultura in
cultura sia ormai compiuto (con le sue
conseguenze di
vintage ed emulazione). La mano preziosa dell’illustratore è rimasta, e ha
supportato quella di un colorista libero e felice. Passare lo specchio di Guarnaccia
è insomma, semplice e piacevole, e non impone astruse rielaborazioni critiche
(in fondo, ironizza lui stesso nel titolo, è solo “
Un’altra, f***, mostra”…).
Però
proprio i variopinti accenti
swinging London di questo accattivante
revival rischiano di distrarre
dall’elemento spirituale,
mistico, di un esercizio grafico che è soprattutto agone
interiore, aspetto nient’affatto marginale nella filosofia di un artista che il
suo viaggio in India (altro
must irrinunciabile del movimento
hippie) continua a farlo sui Navigli.
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Grande Matteo !
mostra interessante, da vedere assolutamente,bella.