La mostra
Superfetazione è una prova di forza. Il sussulto
di un giovane artista teso a suscitare una reazione, il “discorso pubblico”
sistematicamente negato all’uscita da una mostra.
L’
hybris tipica di ogni vero artista viene qui declinata in chiave
dialettica. Prima di tutto, l’aggressione. Quelle di
Umberto Chiodi (Bentivoglio,
Bologna, 1981; vive a Milano) sono opere che s’impongono e sovrastano.
Vecchi oggetti, cascami beckettiani che si alleano e si ricompongono in un
risultato di gran lunga più grande della somma delle parti.
Il riutilizzo trascende la provenienza, si riaggiorna al
presente; un presente che, in quanto imperfetto, dev’essere anch’esso trasceso.
Un intento riuscito, se è vero che le opere, nel rendere alla perfezione
l’identità divisa dell’uomo d’oggi, sembrano anche indicare una via
alternativa, più dialettica e umanistica.
La
Sopraffazione, titolo di una delle opere, non passa solo per un
approccio intellettuale (stimolato anche dalla composizione rigorosa e quasi
modernista); numerosi sono i momenti in cui l’elemento di un’opera attenta alla
stabilità emotiva dello spettatore.
Sono punti forti, simili al
punctum barthesiano nelle fotografie, che
spezzano la trama dell’opera e si sporgono in modo (idealmente) perpendicolare
alla superficie del lavoro.
Per far questo, i singoli elementi fingono di essere
simboli e apprestano la mente di chi guarda a ritrovarne il referente, ma si
ritraggono all’ultimo momento, non rimandando a niente. E la mancanza di
simbolismo, di letteralità, di un uso sregolato dell’inconscio sono altrettante
caratteristiche meritevoli di queste opere.
La sopraffazione e lo spiazzamento operano anche “ai
danni” di chi già conosceva Chiodi. Il cambiamento è radicale rispetto ai
disegni che realizzava in precedenza. In realtà non c’è una vera cesura fra i
due tipi di opere, e il costrutto delle attuali si sviluppa anche sulle
fondamenta di quelli precedenti. Ma il disegno è assorbito in dinamiche visive
e tattili meno legate a una trascrizione stenografica dell’anima dell’artista e
del suo inconscio; e ciò rappresenta un altro punto decisivo a favore delle
opere ora in mostra.
L’inconscio sussiste, ma si tratta di un inconscio
condiviso socialmente, non isolazionista; e strutturato come un sistema
espressivo, secondo la dottrina lacaniana.
Come nelle opere precedenti di Chiodi, anche qui è tutta
questione di rapporti di forza, tra i singoli elementi che lottano per lo
spazio reciproco, tra opera e spettatore, fra lo spettatore e il proprio
rimosso. Le tensioni e le frizioni tra i singoli elementi scatenano stavolta
energie in sovrappiù, rigorose ma potentissime e liberatorie.