È possibile immaginare un mondo
edificato dalla comunità, intesa questa come identità conscia delle proprie
capacità e autonoma nel determinare il proprio habitat? Sarebbe possibile
pensare all’urbanizzazione partendo dall’unità basilare umana, per procedere
via via coerentemente fino a una riorganizzazione degli spazi capace di
tralasciare, per un attimo, il risvolto estetico-spettacolare proposto dagli
addetti ai lavori più recenti e illustri, oggi comunemente noti col nomignolo,
non proprio vezzeggiativo, di “archistar”?
Yona Friedman (Budapest, 1923; vive a Parigi)
si pone questa domanda – alla quale ha abbondantemente risposto nell’ultimo
cinquantennio di attività – dalla pubblicazione, nel 1958, del volume
Architecture
Mobile. La
teorizzazione di Friedman si muove al passo con gli sviluppi tecnologici e
massmediatici globali, in alcuni passaggi anticipando oltremodo aspetti legati
a circostanze che riguardano il presente e il futuro prossimo, quali l’impoverimento
globale e la crescente riduzione delle risorse rinnovabili (si veda il
lungimirante
Toward a poor world or how scarcity might prevent catastrophe del
1973).
L’architetto ungherese crede
fermamente in quelle che lui stesso definisce
utopie realizzabili (titolo di un altro celebre testo
del ‘74
) e
concentra la propria attività sulla progettazione della
Ville Spatiale, quella che a suo avviso può
definirsi la soluzione ai problemi di congestionamento delle metropoli
mondiali.
Nella mostra da Minini, Friedman
concepisce
ad hoc il taglio da cartoline postali dei progetti e dell’installazione principale,
rigorosamente senza titolo, allargando questa volta la visione su due città
legate da un forte vincolo territoriale e storico come Venezia e Brescia. Le
prospettive si sollevano sui panorami urbani come nuvole geometriche e
decostruite, in un alternarsi di volumi sinuosi e griglie geometriche, fino a
snodarsi in quelle che l’architetto definisce “
altane pubbliche”, sequenza poetica di ponti che
si snoda sui tetti della città lagunare.
Questo schema inizia a
configurarsi negli anni Cinquanta e prevede una struttura unitaria, adattabile
a qualunque nucleo urbano, che si solleva dalla città preesistente: sospesi a
venti metri da terra, in una sorta di evoluzione della stratificazione
geologica, gli spazi vivibili sono vuoti e malleabili, in attesa di essere
progettati e concepiti dagli stessi individui che li abiteranno. L’architetto
deus
ex machina cede allora
il passo al cittadino medio, che per Friedman è l’artefice più idoneo ad
autodefinire i propri spazi.
Se l’architettura contemporanea è
volta, oggi più che mai, a concentrarsi referenzialmente sulla promozione
glamour di spazi, edifici e artefici, in Friedman rivive di un amore
antropologico che va ben oltre i dettami del XXI secolo, proiettata verso un
futuro visto come tempo di revisione e di rivoluzione d’intenti.