Preliminarmente, circa il luogo espositivo, è uno spazio su due piani, scala interna, balconata in circolo e un’ampia, luminosa, vetrina su strada. Un design-detail quest’ultimo che riguarda chi passa, passeggiando, e quindi le possibilità di fruire, esterno-interno, di piccoli monitor che operano installazioni-visive. Guardando le trasparenze delle lastre, le luci che emanano, ci ripensiamo dentro un film, un filmato girato su noi stessi, lì, in quei momenti, stando on the road.
Qui, come in Crashed tv, ‘99, The Melting Technology, ‘98, No – Channel tv, 1998, si denunciano le grida di una tv in decomposizione; scatole che dal tubo catodico sputano schegge in metamorfosi verso il proprio indurimento, sclerotizzazioni multiple dello stato liquido dei cristalli. Anziché produrre argento vivo, metallo naturalmente disordinato ma se intelligentemente guidato positivamente utile (il termometro), si crea, parrebbe, la replica sistematica dei tessuti-canali, dei contenuti, delle informazioni, delle idee: inerti, immobili, linguaggi restaurati, non rivoluzionati. Ma anche scritture elettroniche, che attraverso il vetro, il neon, il video, materiali primari delle lavorazioni dell’artista, disegnano, in un montaggio a loup, una colata di colori; in scivolamenti continui, sette diverse tinte strisciano coprendo schermi sovrapposti all’interno di un mobiletto in ferro, Colore elettronico: metamorfosi, 1999. Sono danze, ingabbiamenti dentro gli stessi movimenti, impulsi lenti; tali processi, scioglimenti, operanti fuori da questo contesto, reale-virtuale, là dove l’autrice interviene manualmente, con elettrificazioni, fusioni, la fiamma ossidrica che fonde le cere, ri-trasformandole, fanno ri-sentire le prospettive interpretative dei rituali alchemici di cui scrive Pierre Restany a proposito di Il corpo ricostruito, ‘75, Box of Life, videoperformance, ‘78, Straphangers, Inroads, ‘81 e, quanto alla presente esposizione, ci sembra, di L’angelo Narciso, 1996.
Tullio Pacifici
Vetro di Murano: un sogno ad occhi aperti tra poesia e tecnologia nella mostra di Federica Marangoni.
L’artista espone alla Galleria Sant’Erasmo piccole installazioni costruite in vetro di Murano che da trent’anni manipola, crea e frantuma con tecnica consumata e sentire sempre intatto, in equilibrio tra intuizione energetica e invenzione tecnologica. Perspeex, tubolari, poliestere, calchi, videoinstallazioni commentano, trasformano, manipolano la fragile materia che da secoli si identifica con Venezia, dove Federica ha sempre lavorato e da dove sono partite le idee diventate perfomances a New York, fontane in vetro di Siviglia o prati elettronici a Valencia. Federica Marangoni però, moltiplica all’infinito le tecniche ma non le icone. Si individuano infatti alcuni archetipi sui quali approfondisce la ricerca delle varianti: la maxibobina di cavi elettrici, la bandiera, la scala, l’arcobaleno. E’ quello che Pierre Restany definisce la matrice umanista dell’elettronica. Una colata di vetro immaginario scende da bacili da fusione e crea simboliche vasche colorate. L’immagine si traduce nei video, fusioni tra icone elettroniche ed elettrodomestici, metafore paragonabili, negli esiti, alle video sculture di Paik, Lucier, Viola.
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