Have no fear è la
prima personale milanese di
Thordis Adalsteinsdottir (Reykjavik,
1975; vive a New York). La mostra richiede ai visitatori di esser disposti a
portarne prima rispetto per poi provarne in seguito una certa, seppur dedita,
reverenza. Sempre che non si decida, all’ultimo, di passare oltre, lasciando in
abbandono le vedute di Adalsteinsdottir, e dunque
allontanandole con un risoluto senso di non
appartenenza.
Se si rimane catturati nel mondo allegorico del pittore,
ci si muoverà a occhi e passi nella stessa direzione. Quella che lui è capace
di indicare. Davanti ai suoi teatri senza-geografia, infatti, non si tratta di
dover fare un uso immediato di lungimiranza breve, o di qualsiasi espediente
retorico sprecato dall’intelligenza usata a tutti i costi, quella finta sagacia
sviluppata da chi deve far sempre notare che si sta notando. Basta porre anche
poca attenzione per far subito caso a un altro mondo, a un diverso sistema
pittorico, a otto nuovi disegni, due dipinti e un video.
Tutti differenti dal resto. Da meditare, dunque.
Negli spazi della galleria l’artista islandese, fra tele e
tavole,
sottopone la natura della luce alla natura dell’uomo, rappresentando
trasmigrazioni, passaggi, ritratti e figure solitarie come esseri di un
universo formalmente definito. Definito come altro da sé
. Gli sfondi prevalentemente monocromi catturano
l’occhio, abituandolo alle distanze; misure fittizie che alternano texture
arabescate a orizzonti accennati con profusione e ad atmosfere materiche piene.
Il vuoto è un elemento esterno e interno alla
composizione, rimanendo una componente suggerita, impressionata più che
solamente rappresentata. Adalsteinsdottir è infatti un pittore trascendente che
restituisce simboli ed essenze, là dove il suo occhio ritrae le linee
precorritrici di cose e creature.
Il soggetto delle raffigurazioni riguarda l’istante
monitorato di diversi cicli di vita, morte e
rinascita. L’utilizzo di un’iconografia spietata, incentrata
sull’addomesticamento dell’umano produce, nei lavori, un immaginario fiabesco
che parla anche attraverso il mondo animale. Ampliandone senso e veridicità del
messaggio, di cui si fanno interpreti e portatori.
È da ricordare però che
l’artista non trasforma animali, geometrie, sezioni cromatiche e collage
immaginari per convertirli in dispositivi assolutizzanti. Il motivo è che Adalsteinsdottir non assume la narrazione pittorica come una corrente alla
quale aderire, né come una premessa. Spesso, ad esempio, nelle sue
raffigurazioni gli animali sono personificati come uomini, solo per
sottolineare l’ambivalenza verso gli stereotipi di genere.
Resta infatti determinante, per
un’analisi visiva ed escatologica dei lavori esposti in
Have no fear, la predominanza di colori caldi, sfumature che
rassicurano e smorzano l’usuale, tagliente capacità pittorica delle
prospettive. Il risultato è la violenza della rappresentazione sotto forma di
emotività dei contenuti.