Nella pittura di
Francesco De Grandi (Palermo, 1968; vive a Milano) c’è un elemento di complessità che concede alla lettura del paesaggio -secondo una distribuzione delle qualità formali disposta a triade- altri due ritmi satelliti. Più esattamente, due andature: riguardanti l’attivo e il passivo della visione. Quelli che l’artista siciliano dipinge, olio su tela, sono paesaggi intricati, viste dal sapore infedele, scorci di mondi dimenticati, che contengono e mantengono, al loro interno, una composizione volutamente caotica e incompleta, seppure sofisticata e artificiale.
Il fatto che stupisce è che, allo stesso tempo, la medesima montatura del materiale pittorico si sviluppi, nonostante le complicazioni della natura, lungo due sensi della variazione formale. Due logiche dispositive che, sdilinquite su un piano prettamente verticale, si alternano secondo due ritmi opponibili. Due differenze statiche che necessitano di uno sguardo
in salita e uno
in discesa. Mai, dunque, guardare a questa personale rimanendo sulla superficie travagliata e mobile di questa serie di oli su tela: si correrebbe il rischio di insabbiare il contenuto pittorico in un avvallamento figurativo da
erbario di fantasia.
Per essere meno criptici e più aderenti basta vedere quel che succede, immobile da sempre, dentro questo mondo analogo; mondo confinato da De Grandi su un ben determinato, perché forse in parallelo esistente
Monte analogo. Come uno specchio oscuro,
Solaris, steso sul piccolo formato, emette il vero
la di partenza su tutta la personale, allestita peraltro con toni affatto milanesi.
In questo dipinto, la luce, elemento accompagnatore e fine ultimo dell’opera, bagna attraverso la rugiada, le piante -poste in bilico sull’esistenza- sulle quali si posa in verticale. Precorritrice e scopritrice, dunque, la luminosità diventa un incentivo di rapidità, indagando in velocità le insensatezze spettrali della prospettiva. Attraverso il fare luce, coincidente con il moto dell’aprirsi un varco, in questo quadro l’occhio mescola le pennellate polverose, turbinanti e oscure nel pieno rispetto della calma monocorde che dirige ogni singolare scelta cromatica.
Di rimando, ne
La danza la natura morta che non muore ma che rivive sotto forma di arbusti tortili e dai germogli schiacciati, diventa cortina vegetale per gli occhi. In questo dipinto la luce e l’aria, per non smorzarsi, moderano la loro presenza libera e ristretta, proprio come nei due enormi
Senza titolo posti all’ingresso. In questo modo, i due elementi si stagliano sovrani e spiazzanti, esprimendo un’insolita solidità.
Così, sotto il cielo di un’alba sintetica si diffonde la vita nella macchia, disseminando di arbusti mai definiti il suolo che fluttua e non si schianta mai. Come se i piedi di orme umane nemmeno potessero marchiare lo scompiglio di sterpaglie che, in qualità di soggetti, non hanno mai previsto alcuna presenza di natura. Presenza diversa rispetto alla loro maligna selvatichezza.
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sarde parole!
...Si avanti con scherno alla distruzione! ed io attraverso quelle sterpaglie stando attento alle belve!BRAVO !!