Francesco Lauretta (Ispica, Ragusa, 1964) torna a Milano, per la seconda volta, con una personale. E la galleria Colombo, per l’occasione, si mostra notturna, ancestrale. Alle pareti sono esposti sei dipinti, un video e una fotografia. Eppure il nocciolo duro che li raggruppa è una narrazione densa, una prosa che contagia anche lo stile pittorico. Il tema che unisce e riverbera ogni lavoro, infatti, è uno soltanto. È una trama scheletrica della memoria. Un racconto scritto dal pittore che lega e tinge la composizione ripetitiva delle tele. Una traslitterazione visiva del misterioso giallo libresco.
Come i tarli dei ricordi, la resa ritrattistica di Lauretta si rincorre ad anello, seguendo un moto fluido. Mai identico a se stesso. Stesa attorno ad un circolo diegetico, un girotondo per perdere senso, la pittura diventa oggetto del ritorno. Un giradischi di voci che s’interrompe e s’inserisce al punto giusto. Da sè. E come il protagonista del racconto, lo sguardo di chi osserva si sofferma sempre e solo sulle diversità del tempo. Differenze trasformate, nello spazio, in dettagli assenti.
In Da qualche parte, Stai calma e Nel paesaggio nervoso la casa che disturba e imperversa questi tre momenti notturni si mostra sotto una lente che la distorce. Una lente che cambia di volta in volta, come vita in sogno. Il soggetto architettonico rappresentato è sempre lo stesso. Una villetta bianca di due piani, posta all’angolo, all’incrocio di una strada. Un edificio mai finito e per questo sbarrato da assi di cantiere, inchiodate alle porte e alle finestre. Una casetta che, come la storia nascosta al suo interno, diventa il punto di passaggio, il punto privilegiato per intravedere solo quel che le rimane dietro.
Il tratto di Lauretta, in questi tre lavori, è caratterizzato da sprazzi morbidi, acquosi, lisci e densi. I colori slavati, che stemperano dal registro del nero a quello del verde, si depositano tesi e nitidi solamente su alcuni punti, ben focalizzati. In questo modo il risultato figurativo si dilata senza risultare invadente evitando di fagocitare la voluta indecisione delle linee e degli orli, slabbrati per diventare traccia mnestica. Ognuno di questi tre lavori è attraversato da un fascio luminescente, quasi sempre verticale, fascio che divarica il buio e salva fuori dalla notte quel che non le è permesso prendersi. Solo attraverso i colori chiari Francesco Lauretta indaga e fa rinvenire nuovi elementi. Panchine, scritte e dettagli del paesaggio che lo stesso artista non ricorda o, forse, soltanto, torna ad immaginare.
Più giallastra e inquietante, invece, risulta la sala d’ingresso. Alle pareti, contrapposti l’uno di fronte all’altro, appaiono due Al mondo. Due tele che finalmente scardinano l’ossessione della casa infantile per spostarsi sul moto della compulsione umana. Entrambi i dipinti rappresentano due istantanee, due scatti in movimento che ritraggono il tempo. Il ritmo degli spostamenti di un bambino intento al vecchio gioco del mondo. Ancora una volta l’artista mette in risalto la densità volatile della materia pittorica, intenta a vincere la presa della realtà.
Questi due lavori chiudono e aprono il registro di Privato come l’obiettivo di una macchina fotografica. Un vecchio ammennicolo che non cattura mai quel che c’è, perchè fa vedere solo quel che è già stato.
ginevra bria
mostra visitata il 19 aprile 2007
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