Capanne di legno, sperdute nella campagna brulla e assolata, volti di giovani donne provati dal sole e incorniciati da austeri foulard neri, pelli piagate dal tempo e dalle vicissitudini. Siamo ad Achara, in Georgia, una regione significativa per le vicende storiche che ne hanno segnato confini e abitanti. Storie d’indipendenze, annessioni, sangue, rivoluzioni e riannessioni. Trascorrono circa due anni dalla fine dei conflitti e una giovane artista-fotografa locale,
Marika Asatiani (Tiblisi, 1977), si reca ad Achara per stilare un reportage attento e meticoloso, di cui protagonisti assoluti sembrano essere le figure femminili, le abitazioni e i singoli, delicati gesti della quotidianità, finalmente tornata a essere il cardine fondamentale dell’esistenza di questa terra.
Vite, inquadrature e sguardi che non possono non ricordare nell’ostentazione di una dignità mai perduta, accentuata dalle posture fiere avvolte in abiti malmessi, nella simulazione di non- chalance davanti a quell’obiettivo e al suo manovratore, che diverte e incuriosisce, la poesia romantica e trasgressiva di
Un Paese, progettato da
Cesare Zavattini e
Paul Strand tra il 1952 e il 1955, nel paese natìo dello scrittore, Luzzara. Si tratta di due realtà diverse, eppure estremamente vicine. Entrambe colte tra le rovine di guerre, regimi, politiche infelici, dolorose e decennali. Entrambe viste attraverso gli occhi di quei protagonisti che la storia tende a dimenticare, di quegli oggetti che gli avvenimenti travolgono nella piena, senza il lusso di una menzione, mettendo in conto un numero in più fra i tanti. In entrambe le circostanze, sono, infine, gli artisti che si adoperano per riempire i vuoti interstiziali lasciati dalla storia.
Una storia, che nel caso delle montagne di Achara, è stata in grado di separare e isolare, fino a far sì che i suoi abitanti, divisi dal resto della Georgia per religione e confini geografici, sviluppassero estetica e tradizioni peculiari. L’atteggiamento di Marika Asatiani è dunque sia quello di chi, con amor di patria, fa un pellegrinaggio in terra natìa alla riscoperta della storia del proprio Paese, sia quello dello straniero che si ritrova sedotto e affascinato da misteriose ed esotiche culture lontane. Entrambi i sentimenti emergono molto chiaramente dai suoi still, in cui affetto, identificazione ed empatia sembrano vincolare fotografo e soggetto in un legame profondo, un calore che allo spettatore esterno non può sfuggire.
Tuttavia, l’attenzione dell’artista per le vesti colorate, per i costumi domenicali così goffamente occidentali, per i tappeti arabescati stesi al sole e le decorazioni insolite, sottolineate con vigore attraverso le angolazioni, le luci e le inquadrature delle sue immagini, tradiscono una distanza di anni-luce tra due realtà che i confini hanno unito e che le vicende e la realtà più volte hanno tentato di separare.