Varcare la soglia di un museo ed essere spettatori attivi di un continuo scambio tra illusione e realtà, tra particolare ed universale, in un gioco contaminatorio che trova il suo comune denominatore nello sguardo stupito dei visitatori.
Una sfida tra essere ed apparire a cui, da sempre, l’Arte ha cercato di dare una risposta (dagli antichi busti romani, connessi al culto degli antenati, all’ingannevole trompe-l’oeil, dalla pittura rinascimentale del ‘400 a quella francese, en plein air, ottocentesca), e che nel
Hanson, in particolare, dopo aver attraversato alterne fasi di ricerca formale, rimasta incerta fino alla scoperta nel 1965 delle opere di George Segal, coglie l’inscindibile osmosi tra arte e vita, tra opera e quotidianità, non depurata da possibili elementi perturbanti, ma fedele a tutti quegli aspetti inguaribilmente tragici che fendono l’esistenza di ogni uomo.
Osservando il grigiore e la banalità dei sobborghi statunitensi, egli avverte l’esigenza di dar voce, in modo accurato, alla vacuità ed alla solitudine di soggetti ordinari, alla comune anonimia di una folla che dignitosamente combatte ogni giorno contro degrado ed emarginazione.
E quale linguaggio, se non quello scultoreo, può rappresentare al meglio questa logorata tipologia di modelli che, grazie alla presenza tridimensionale, urlano silenziosamente la propria rassegnata malinconia?
Hanson, però, non si accontenta di distaccate riproduzioni materiche ove il personaggio rappresentato posa freddamente dinanzi all’occhio indagatore dell’artista ed anzi, come un moderno Pigmalione, crea degli autentici calchi successivamente rivestiti di fibra di vetro e di resina di poliestere, modellando così una galleria di copie, fedeli ad una disperazione immobilizzata dalle leggi artistiche.
Di fronte alla cruda schiettezza di figure che affidano la propria esistenza alla maestria di una tecnica, di un ritocco, di un particolare, l’ambigua interrelazione con l’ambiente, volta a creare un’impalpabile effetto scenografico in una realtà consacratrice come quella museale, fa sì che queste sculture, estraniandosi dall’originaria quotidianità, acquistino nell’apparente eternità di un singolo momento una dimensione illusionistica, la quale, proprio nella continua contaminazione tra unicità e standardizzazione, ribadisce la discrepanza dell’essere simile senza mai essere la stessa, in un gioco spiazzante di ruoli, copie, controfigure, mirato a creare un insondabile effetto di non identità.
Soltanto attraverso uno sguardo intenso ed immobile queste opere rivelano la propria debolezza, la propria inanimata artificiosità, accrescendo così un imprevedibile senso di disagio nell’osservatore, il quale, di fronte a cloni spettrali di un’identità perduta, teme di venire incluso anch’esso nel mondo della finzione, divenendo parte attiva di una figurazione mitologica che, ora, riscopre le radici nell’assoluta paralisi di uno sfuggente brandello di realtà.
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Elena Granuzzo
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Gli spunti sono talmente tanti che si potrebbe parlare per ore di questa mostra. La cosa che più mi colpisce di questo artista è il suo percorso, che lo ha portato a rinnegare le sue opere giovanili (al punto di distruggerne alcune), in favore di una più tranquilla ricerca estetica (o, se vogliamo, antiestetica).
Le sue prime sculture erano tecnicamente meno valide e precise, ma decisamente forti e dense di significati (parlavano di stupro, di aborto, di problemi razziali...). Opere che gli hanno procurato molti problemi e l'avversione dei critici, che proprio non volevano saperne di considerare le sue sculture delle opere d'arte. Le sue opere mature, invece, pur essendo tecnicamente perfette e osannate da sciami di critici onanisti, sono dolorosamente vuote; infatti, tutti quelli che ne hanno scritto lo hanno fatto arrampicandosi sugli specchi di una dialettica esasperata, come sempre succede quando non si sa proprio cosa dire.
Ma aldilà di tutti i paroloni che si possono usare per descrivere l'incredulità degli spettatori al cospetto di sculture alle quali manca solo un respiro o un battito di ciglia per diventare esse stesse spettatrici, resta il fatto che Hanson rappresenta una promessa non mantenuta, una scommessa persa.
Nonostante la sua forza nel combattere per oltre 20 anni con un cancro (causato proprio dai materiali delle sue sculture) che lo ha poi stroncato, Hanson è come gli esclusi delle sue sculture; non ha saputo reggere la competitività di un meccanismo perverso come quello dell'arte e di tutta la fauna predatoria che la circonda. Un artista escluso non ha che due possibilità: il suicidio fisico o quello artistico; lui scelse il secondo. Una lezione di vita e di arte molto poetica, ma anche molto tragica.
eccellente
(proseguendo un dialogo immaginario)Mi è piaciuta molto la mostra di Duane, e, sarà la mia leggiadra ignoranza, ma non ho provato quel senso di insoddisfazione verso il suo cambiamento'...tutt'altro...ha semplicemente cambiato modo di porsi nei confronti del reale...
così come c'è chi muore per una faida tra gang rivali, c'è chi fotografa monumenti o prende il sole abbandonato su una sdraio....
mi è piaciuto molto, anche il meta-pensiero di fermarsi ad osservare scrupolosamente persone che la maggior parte di noi non riconosce nemmeno sedute di fianco sulla metropolitana o al bancone del bar di fianco allo zucchero....