La provincia vuole battere la città. Attraverso rassegne che siano complete, documentate, al di là di un semplice richiamo sensazionalistico. Così il progetto SALE (Spazio Arte Legnano) continua il suo iter espositivo con una mostra dedicata ad un decano dell’arte francese, ancora trascurato in Italia. Il fil rouge che sembra legare le varie iniziative culturali dell’area alto-milanese è l’indagine sull’essere umano, la proposta di artisti che si sono occupati dell’umanità. Così il Castello Visconteo si trova ad ospitare, dopo Francisco Goya, Jean Rustin (Montigny-lès-Metz, 1928).
L’affiancamento non è casuale, tanto che Edward Lucie-Smith, il critico che più si è occupato di Rustin, aveva già avanzato un possibile termine di paragone. Rustin è un maestro della pittura, nel senso tradizionale. Tanto inquietanti sono i soggetti quanto abile e calcolata è la resa formale, che ben si addice al silenzio ed agli spazi cadenzati del Castello. L’autore non nasce come pittore figurativo. Dagli anni Cinquanta si dedica all’astrazione, realizzando opere che si caratterizzano per il colorismo intenso. Nel 1971, la svolta: in seguito ad una grande retrospettiva al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, si accorge di aver sbagliato strada. Trova che i suoi lavori non esprimano la forza espressionista che lui desiderava, li definisce graziosi.
Proseguendo negli anni intraprende un percorso paradossale, vista la storia della pittura novecentesca: parte dall’astrazione per arrivare ad un figurativo di marca realista. A cominciare dalla reintroduzione della gravità nello spazio, come lui stesso ammette. Ecco allora i nuovi spazi di Rustin, stanze anguste da manicomio o prigione, ambienti claustrofobici, le cui uniche connotazioni sono brande inospitali ed altrettanto squallidi contatori della luce. Ad abitare questi luoghi, ammesso che così si possa chiamarli, essere umani in stato larvale.
Corpi decrepiti, magri, cerei, “una presenza abbandonata da se stessa prima che dagli altri” (Flavio Arensi). Eppure ancora vivi loro malgrado, con quegli occhi grandi quasi infantili, con la consapevolezza casuale di essere osservati, che li porta a coprirsi in qualche modo, a mettersi in posa, a cercare con lo sguardo oltre la tela, visto che anche il contatto sessuale all’interno del quadro è disperatamente animalesco. L’autore non si fa problemi ad infierire sui suoi bambocci, ad esporne i genitali tumidi in quel modo che Freud aveva dichiarato conturbante. Non a caso Rustin trova molto interessante tanto la pornografia quanto un autore scomodo come Céline.
Poi c’è la pittura, il colpo di pennello studiato, la palette cromatica equilibrata tutta giocata tra il grigio ed un celeste ceruleo, così reminiscente del manierismo picassiano nei periodi blu e rosa. L’arte può trionfare sulla bruttezza della condizione umana contemporanea? Non pare il caso, piuttosto sembra voler spostare gli accenti della riflessione. Al di là del fragore di tanta fotografia, al di là delle immagini dell’Olocausto a cui il pubblico ha fatto il callo suo malgrado, Rustin ritrova l’ambiguità del grande Realismo.
Quello che Lucie-Smith chiama in causa citando Velazquez e Hals, Goya e Manet, ma si potrebbe limitarsi al locale Giacomo Ceruti (il Pitocchetto). Quell’usare i canoni e mantenersi nel genere per non suscitare clamori inopportuni, per convincere lo spettatore a guardare e poi intrappolarlo in una situazione di complicità. Di modo che non si rinunci a dire tutto. Tutta la verità della propria epoca.
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