L’arte è controinformazione, almeno così la intende
Alfredo Jaar (Santiago, 1956; vive a New York), cileno formatosi come architetto e film-maker sotto la dittatura di Pinochet e trasferitosi negli Stati Uniti nel 1982. L’antologica milanese espone questo radicale senso della cultura che ha reso il lavoro di Jaar una testimonianza di come l’arte fatta dai non (tecnicamente) artisti possa vestirsi di sensi inediti, dandole nuova linfa, nuovi scopi, nuova vita.
La mostra presenta le opere appartenenti alle serie di lavori più significativi della produzione di Jaar, che per l’occasione pensa un progetto pubblico di affissioni recanti domande in cerca del senso sul “fare cultura”, evocando Antonio Gramsci e Pier Paolo Pasolini. Cos’è la cultura e che ruolo ha nella società attuale? Può trasformare la società e la politica facendo controinformazione? Jaar lo domanda attraverso
Questions Questions, un progetto che ha per teatro l’intera città e le sue vie di comunicazione. Jaar “occupa” i cartelloni, ruba spazi alla pubblicità e pone domande che offrono un’esperienza straniante dello spazio cittadino: una deriva situazionista post litteram e di senso invertito.
Ma negli ultimi anni l’artista cileno avverte un certo sconforto: la mediacrazia globale, intesa come prodotto di una cultura divenuta “distrazione di massa” e sottoposta alla logica del profitto, resta indifferente alle emergenze umanitarie. Jaar lo rivela tramite la serie dei suoi “media works”: l’analisi di alcuni dei maggiori organi d’informazione a mezzo stampa americani dimostra che l’Africa è un continente che quasi non esiste oppure viene trattato come soggetto esotico. In
Untitled (Newsweek) (1994), Jaar registra il ritardo impiegato dal settimanale nel dare notizia del massacro in Ruanda: cento giorni durante i quali morirono un milione di tutsi.
Due anni dopo, l’artista “fotografa” la situazione attraverso le copertine di sessant’anni di “Life”, e nel 2006 torna sul “Time” e “Businees Week” per denunciare una visione indifferente di un continente che affonda letteralmente nel petrolio, come nell’installazione
Emergencia (1998). La controinformazione di Jaar sa essere accusa urticante, come nel progetto dedicato a tracciare le rotte che portano i rifiuti tossici italiani a finire in Nigeria (l’Italia è per Jaar una terza patria), ma sa anche ammantarsi di “saudade”, come nel film
Muxima (2005), un poema visivo girato in Angola dopo la guerra e accompagnato da canti popolari.
Il cuore di Jaar batte in Africa al ritmo di una disperazione razionale.
The Rwanda Project è un ciclo che comprende opere come
The eyes of Gutete Emerita (1996), una montagna di un milione di diapositive dello sguardo di una donna che ha assistito al massacro della propria famiglia. Opera dedicata alla vittima assoluta, al martire, mentre
An Atlas of Clouds (2006) offre il controcanto di un progetto di classificazione delle nuvole che, imperturbabili, attraversano i cieli africani.
Il capolavoro però, si trova alla Bicocca.
The Sound of Silence (2006) è un video di otto minuti che narra la storia di Kevin Carter, il fotografo sudafricano che scandalizzò il mondo con uno scatto realizzato in Sudan nel ‘93: una bambina denutrita e un avvoltoio in attesa della sua morte. Carter vinse il Premio Pulitzer, ma pochi mesi dopo si suicidò.