Da Milano con affetto. Un regalo di nozze di prestigio per Grazia Toderi (Padova, 1963), che nella primavera 2007 convolerà a giuste nozze col fidanzato Gilberto Zorio e che si dà, per così dire, ad eccentrici addii al nubilato. Come questa personale presso il Pac di Milano, spazio espositivo anch’esso da poco maritato all’assessorato alla cultura di Vittorio Sgarbi e alla direzione artistica di Alessandro Riva. Che per questa volta, dopo l’esordio con Andres Serrano, dà forfait e lascia campo libero a Francesca Pasini, per una mostra “tutta al femminile”. Ma bando ai merletti, l’artista patavina tralascia di dedicarsi alle proprie peculiarità muliebri per concentrarsi su temi ecumenici, quali il discorso -poco politico, più poetico- sullo spazio urbano e sui suoi luoghi sociali privilegiati e l’incontro sidereo tra terra e cielo, nella sua accezione più fantascientifica. Con un’attenzione particolare per la città ospite, cui la Toderi offre un romantico assolo. Così l’immagine filmata dal satellite di una Milano vista dall’alto diventa un incrocio intangibile di linee e volumi, la rete del ragno trasposta sulla tela pittorica, in cui il punctum -teorizzato da Roland Barthes ne La camera chiara– è rappresentato da inserti luminosi valorizzati con insistenza.
Similmente per opere come San Siro o Diamante, in cui le riprese televisive di stadi sono trasformate, attraverso giochi di luci intermittenti, in astronavi del futuro. Sono sempre gli edifici a pianta centrale, le forme ellittiche delle arene, inoltre il culmine di una cupola, le balconate di un teatro, ad interessare Grazia Toderi. Ma anche i rapporti tra le proporzioni e gli effetti chiaroscurali, che intessono le trame estetiche delle sue proiezioni. Giammai movimentate, sempre rasserenate da uno stato di flemma apparente, accresciuto da variazioni impercettibili come battiti di ciglia.
È il caso di uno dei suoi ultimi lavori, Rosso babele, in cui l’immagine finale di una città, proposta in doppia proiezione, è data dalla sovrapposizione a “pelle di cipolla” di sequenze filmiche stratificate. La risultante è la creazione di una nuova sfumatura di rosso, prodotto dalla sommatoria delle tonalità generate dalle lampade adoperate per illuminare le città, i cui vapori di sodio all’accensione danno per l’appunto effetti luministici vermigli.
La Toderi, dunque, si trasforma in pittrice. Impasta i riverberi ottenuti in un’intonazione nuova e, dandole un’interpretazione drammatica, quasi escatologica, la battezza con il nome “Babele”. L’orizzonte diventa il luogo di incontro di un ribaltamento di ruoli astrale. E’ la terra, grazie alla mano dell’uomo, ad essere metafora della leggerezza. Di un volo assurdo, eppure inarrestabile. Al cielo, grondante del sangue di Babele, non resta che appesantirsi dei carichi del mondo umano. E farsi macchia rossastra o eclissarsi nel baratro del nero più profondo.
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Mostra autocelebrativa.
C'è piuttosto una presunzione di vanità professionale (guarda come sono brava con le riprese d'immagine - che sono belle, ne diamo veramente atto) e di alternativa alle alternative (guarda come sono brava a creare un simbolismo filosofico tra lettura e visione delle cose); lentezza delle immagini snervante e musiche di accomapagnamento mono tone (mai visto un film erotico degli anni '70 ? ecco: eccitante fino alla sonnolenza); percorsi al buio e nella penombra (con l'effetto forzato di un'emozione aggiunta con il richiamo all'arte concettuale e a un certo minimalismo).
Per fortuna che ci sono delle giornate a ingresso gratuito (io sono andato alla mostra domenica 7 gennaio): ma c'è gente che pagherebbe davvero per vedere queste performance?
Angelo Errico