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La nostra stabilità è solo equilibrio e la nostra sapienza sta ne controllo magistrale dell’imprevisto”. Le parole di Dyson Freeman si adattano perfettamente ad
Aberto Burri (Città di Castello, Perugia, 1915 – Nizza, 1995), tanto che era lo stesso artista a riconoscersi in esse. Nella sua opera – dai sacchi ai cretti, alle combustioni – si avverte infatti la sfida di un equilibrio da perseguire attraverso gli elementi più instabili, il costante tentativo di addomesticare la materia per trasformarla in immagine.
Il percorso della grande retrospettiva di Milano si articola in due momenti. Il primo segue cronologicamente la ricerca pittorica dell’artista umbro, teso a mostrare quanto l’aspetto materiale, quasi alchemico della sua arte risponda in realtà a un’esigenza formale, immaginifica. Dopo un rapido accenno agli esordi e ai primi successi, in una sala fin troppo affollata da diverse sperimentazioni, si passa a una più lenta e ponderata rassegna delle opere su materiali inorganici. Tra fusioni di plastiche sanguinolente, solchi di cretti che si dissolvono come onde all’orizzonte e il rigore formale dei cellotex, animati da incisioni, strappi o inserti dorati. Da segnalare la serie
Cretto, nero e oro del ‘94, testimonianza degli esiti felici dell’ultimissima produzione.
Al centro di questo primo percorso, una stanza dedicata ai lavori grafici. Quasi a ribadire l’anteporsi dell’interesse per l’immagine a quello per la materia. Come nella serie
Sestante, che ritorna agli strumenti classici della pittura, rovesciando l’equilibrio materico in combinazioni confuse e imprevedibili di puri colori.
Al piano nobile, la retrospettiva diventa monografia. Qui si avverte l’importanza e la grandiosità dell’omaggio milanese a Burri, con due maestosi cicli inediti per l’Italia, che trovano una collocazione ideale negli ampi spazi della Triennale.
Architettura con cactus è un ciclo di dieci grandi cellotex, che carica lo sguardo dello spettatore per nove imponenti tele riposate e austere, facendolo poi esplodere nella decima, in uno squillante conflitto di colori.
Annottarsi, all’opposto, ritorna – dopo la serigrafia
Multiplex e il grande
Nero Cellotex – alla ricchezza delle sfumature del nero, che risuonano nelle pareti della sala, anch’esse nere, su indicazione dell’artista.
In questo secondo momento espositivo emerge un ulteriore elemento fondante l’opera di Burri: il rapporto con lo spazio. Un’attenzione scrupolosa per i luoghi d’esposizione, culminata nei lavori di ristrutturazione e allestimento della Fondazione Burri a Città di Castello, ma sviluppata anche attraverso l’elaborazione di scenografie per il teatro, a cui la mostra dedica una sala con fotografie e con gli splendidi bozzetti del 1975 per il
Tristano e Isotta allestito al Regio di Torino.
O, ancora, con opere monumentali come
Il Teatro continuo, creato per la Triennale del 1973, donato alla città di Milano e al cui imperdonabile smantellamento questa mostra vuole almeno in parte rimediare.