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Valga il modo in cui Manzù maneggia il bronzo a ricordarci che una trasformazione imprevista può essere altrettanto espressiva quanto la trasformazione insolita del soggetto”, scriveva Ernst Gombrich nel 1960, segnalando una continuità della tradizione artistica anche laddove si opera una violazione delle regole. Parole lungimiranti nel dar coerenza a un percorso, quello di
Giacomo Manzù (Bergamo, 1908 – Ardea, Roma, 1991), in precario equilibrio tra innovazione e consuetudine artistica; percorso celebrato, nel centenario della nascita dell’artista, negli spazi della Gamec con cinquanta opere legate al periodo centrale dell’attività dello scultore bergamasco.
Il progetto espositivo prende avvio dalla serie delle
Crocifissioni e delle
Deposizioni, realizzate nel triennio 1939-42, memori della tradizione dei portali romanici e rinascimentali e della lavorazione in stiacciato di
Donatello, vibranti nel loro ricevere e restituire la luce. Manzù sviluppa un tema, quello sacro, con il quale già aveva familiarizzato nei primi anni ’30, quando si era trasferito a Milano e si era mostrato non meno sensibile alle esperienze plastiche d’Oltralpe di
Maillol,
Rodin,
Renoir,
Degas e alle ricerche di
Medardo Rosso. È un’umanità sofferta a ritrovarsi crocifissa e a tramutare il dolore di uno, Cristo, nel dolore dell’intero genere umano, straziato dalla guerra.
Il tema sacro trova continuità e maturazione nella serie dei
Cardinali, l’invenzione iconografica di maggior respiro nell’opera di Manzù, dove l’aumento del formato risulta direttamente proporzionale alla semplificazione formale, come nel
Grande Cardinale seduto (1955) e nel
Grande Cardinale stante (1956), assai prossimi a “icone”,
totem volutamente indecifrabili e spersonalizzati, i cui corpi nascono dalla sommatoria di enormi solidi geometrici, generando una monumentale struttura piramidale. La vuota rigidità cardinalizia, all’insegna dell’assenza e del distacco, trova tuttavia il proprio
alter ego nell’umana, espressiva, intimamente partecipe
Testa di Papa Giovanni (1963).
Non sono assenti le altre tematiche care all’artista: la ritrattistica, alla quale la mostra dedica un’intera sezione, con i volti di personalità della cultura alle quali Manzù fu legato da rapporti umani e professionali (
Carlo Carrà, Cesare Brandi,
Oskar Kokoschka); e ancora il nudo femminile, in cui l’artista sviluppa in modo nuovo il fattore luministico, conducendo a una smaterializzazione della materia bronzea nell’immaterialità della luce (
Bambina sulla sedia, 1948) .
A concludere l’esposizione, il suggestivo documentario del ‘64 che rievoca le fasi del lavoro dell’artista per la realizzazione della
Porta della Morte in Vaticano: austera, senza ornamenti, eppure potentemente evocativa, diretta nel suo parlare all’uomo dell’uomo, assecondando i toni di quella religiosità senza enfasi che in
Caravaggio ha trovato il suo interprete più spregiudicato.