Il tratto è inconfondibile: vibrante, profondo, come febbricitante. Il colore potente, dirompente, a volte quasi disarmante: il soffio vitale che anima le opere e colpisce dritto gli occhi, e un attimo prima, il cuore. Eppure a
Vincent Van Gogh (Groot Zundert, 1853 – Auvers-sur-Oise, 1890) basta la matita, il carboncino o la penna per tracciare un’emozione e renderla indelebile. Dietro la forza immensa della sua opera immortale, prima dei quadri esplosivi e carichi di energia, c’è il disegno.
A Brescia va in scena Van Gogh come non si era mai visto prima, con la mostra
Van Gogh. Disegni e dipinti. Una rassegna sui generis, che va oltre la mera esposizione delle opere, ma parte, anzitutto, dai disegni – le opere più “intime” del pittore – mostrando con questi i segni evidenti della sua evoluzione artistica ed esaltandone la poetica. Dal Kroller-Muller Museum di Otterlo, elisio olandese per gli amanti dell’arte e i seguaci del genio irrequieto di Zundert, insieme ai quadri (circa venti le tele esposte) esce un’incredibile antologia di disegni – dei quasi mille carteggi prodotti da Van Gogh, la mostra ne offre più di ottanta, raramente esposti insieme prima d’ora – che delineano e ripercorrono i dieci anni di straordinaria, seppure a suo tempo incompresa, carriera pittorica.
Un percorso cronologicamente documentato e suddiviso nelle varie tappe della sua vita “nomade”, dov’è lo stesso artista, attraverso le testimonianze scritte, a descrivere le proprie opere; alternandosi alle osservazioni del curatore Marco Goldin, in uno scenario accuratamente studiato e impeccabile nella scenografia, come ormai le mostre a Santa Giulia hanno saputo abituare il pubblico.
Inizia da solo Van Gogh, comincia da niente. Pochi giorni di Accademia, presto eclissati in un assiduo e rigoroso esercizio da instancabile autodidatta: da sempre consapevole delle sue capacità. E parte proprio dal disegno. Esercitandosi sulla figura umana e sperimentando tecniche sempre nuove. Scoprendone diverse e, talvolta, inventandone anche. Il disegno è il suo strumento diretto per esprimere tout court la realtà, per rimanere in contatto con essa. Va da sé che il risultato di tale dedizione è un susseguirsi di capolavori, in cui la tecnica si affina di lavoro in lavoro e la poetica, umile e passionale, diventa vieppiù eloquente e dominante.
Come negli anni dell’Aia e Drenthe (nel 1883), quando nei suoi carteggi non cerca più la sola figura o il gesto: l’atto si riduce (ed esalta) all’attimo in cui viene immortalato. Per catturare e non perdere la
spontané del momento.
È qui che l’arte supera la natura. Van Gogh ritrae una serie di teste di pescatori, con le facce levigate dal tempo e solcate dai pensieri: chiaroscuri in cui estrae “il tipo” da ogni volto, non l’individuo. Il suo obiettivo è di esprimere “
quelle manchevolezze” e “
deviazioni della realtà” che considera “
più vere della verità letterale”. Come l’espressione del dramma di quel
Vecchio che soffre, affranto, con la testa tra le mani, e condivide il suo dolore col pittore, e ancora oggi, col mondo che lo osserva.
Van Gogh utilizza il bianco e nero per “
mettere sulla carta in tempo breve degli effetti che, in altro modo, perderebbero qualcosa”. Fino all’esplosione della sua opera nella vibrante emozione del colore, che si rafforza ed esalta negli ultimi giorni della sua esistenza; come nei
Cipressi con due figure e nel
Giardino dell’ospedale a Saint-Rémy, che chiudono la rassegna del Santa Giulia. E lasciano un qualcosa del pittore dentro ad ognuno. Proprio come lui voleva.
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e pensare che a me una volta Van Gogh piaceva...
Tutte le volte che vedo un quadro di van gogh mi da sensazioni contrastanti dalla tristezza alla gioia. credo che lui si sta un rivoluzionario.
non ho studiato storia dell'arte,però per adesso è l'unico che mi prende nel mio intimo,l'unico che non mi stanca a guardare i suoi dipinti,invece ci sono pittori impressionisti che dopo che guardo i loro dipinti mi sento satura.
spero di avere tempo per venire a vedere le sue opere grazie e ciao antonella