“
Piccolo lembo di muro giallo, piccolo lembo…”, si ripeteva lo scrittore Bergotte, uno dei personaggi principali della
Récherche proustiana, di fronte alla
Veduta di Delft dell’amato
Vermeer, scoprendone un frammento fino ad allora non notato. L’attenzione, l’ossessione per questo particolare diviene così l’unico pensiero a cui potersi aggrappare, negli ultimi momenti della vita, prima di spirare, rimettendo in gioco il proprio lavoro di scrittore a confronto con questo dettaglio.
Quel “
piccolo lembo di muro giallo” corre alla memoria, istintivo, di fronte a una delle quattro tele che
Riccardo Taiana (Como, 1967; vive a Milano) ha dedicato a “illustrare’” la periferia milanese e che sono oggi esposte in un’unica sala – come finestre aperte su quattro angoli della città – al Museo Diocesano di Milano. La tela s’intitola
Bonola (2006-07). Non faccia sorridere l’accostamento toponomastico Delft-Bonola e non appaia troppo alto il rimando al capolavoro proustiano: un monumento al tempo e alla memoria, ovvero gli assi cardinali nella grammatica dei dipinti di Riccardo Taiana.
È lo stesso autore a rimarcare l’importanza giocata dal tempo nel formarsi della sua opera: “
Aspetto che un paesaggio mi dica qualcosa, torno più volte nello stesso punto, lascio sedimentare l’immagine nella mia testa; senza per questo divenire vittima della descrizione, dell’aneddoto: io aspetto che la realtà di fronte a me si faccia soggetto pittorico”. E così il tempo, di approccio, di riflessione, di esecuzione, sembra divenire materia tangibile sulla tela, tanto quanto i colori e le cose rappresentate. È lì, sedimentato nella distanza interposta fra spettatore e rappresentazione: distanza che è fattore dominante, termometro del sentimento di ogni quadro figurativo e specialmente delle vedute.
“
Ogni quadro prosegue oltre i limiti della tela”, dice Taiana, e il modo in cui quest’idea viene trasmessa dipende proprio dalla distanza. Così, se in un quadro come
Bonola l’equilibrio e il rigore della composizione sembrano far presentire uno spazio infinito ai margini della tela, il punto di vista estremamente ravvicinato di
Scolmatore-Vodafone (2007-08) immerge immediatamente lo spettatore all’interno della scena, dandogli un posto di rilievo, in primissimo piano, fino a fargli provare un’esperienza quasi tattile.
Qui entra in scena la lezione di
Hopper, quel suo modo di far presentire la fisicità delle cose, “
il loro star ben piantate sulla terra”. Fisicità che
Cézanne cercava per via di forma e colore, cambiando in continuazione la disposizione degli oggetti che si trovava di fronte, spostandosi solo di pochi passi, fino a restituire un nuovo universo visivo, con pochissimi mezzi. Questo fa Taiana, mettendo continuamente alla prova i soggetti dei suoi quadri, misurandoli, sfidandoli fino a che, tra gli infiniti possibili modi di rappresentare la realtà, uno solo si faccia urgenza, risposta alla tensione che il punto di vista del pittore immette, necessariamente, al centro della composizione. E così, in questo lungo processo creativo, tutti gli elementi che appartengono alla quotidiana contingenza spariscono.
Ecco il perché di quel silenzio, che involontariamente cala sulla rappresentazione di luoghi affollati e caotici come il
Cavalcavia Don Milani. Un silenzio quasi pierfrancescano, che ancora una volta viene a rendere percepibile il tempo di fermentazione delle immagini nella mente del pittore. Tempo che annulla ogni tentativo di fermare un’immagine nello spazio e nella memoria, flusso e riflusso continuo delle “
intermittenze del cuore”, come aveva ben capito Proust.