Rimasto per lungo tempo più defilato rispetto ad altri suoi colleghi usciti come lui dall’ala del prof. Alberto Garutti, Ettore Favini (Cremona, 1974) inizia solo di recente a raccogliere premi e riconoscimenti. Sarà forse per la sua scelta di operare in periferia, ma certo i suoi lavori si presentano ora densi di aria meditativa, caricati da quel clima metafisico e sospeso che si ritrova spesso nella provincia italiana. I ricordi sfumano, si perdono di vista le persone. Alla fine rimane poco più di un fascio di incontri, che certo caratterizzano e contraddistinguono, ma di cui risulta sempre più difficile riconoscere i lineamenti o la voce. È su questa scia della memoria che si colloca il lavoro presentato alla galleria de March.
L’apparente rigidità formale viene qui velata da un leggero senso di nostalgia e l’opera assume la forma del racconto autobiografico, srotolando davanti a noi una lista di incontri e avvenimenti. Tra le varie espressioni che questo “racconto” viene ad assumere, la più poetica è forse quella di Ipotesi di finito (2007). Lastre di plexiglas poste a mo’ di cannocchiale portano sotto forma di buchi i segni di tutti gli incontri avvenuti nell’arco di una vita. Queste lenti però, invece di zoomare verso un punto unico, annebbiano attraverso la loro sovrapposizione gli strati sottostanti. Si finisce così col non distinguere più i contorni di ciò che accaduto, relegando gli eventi in un passato troppo lontano.
Qui le opere di Favini si raccontano da sé, non vogliono interpretazioni secondarie e non si prestano ad ambiguità, creano piuttosto una lettura univoca, apparentemente fredda, ma che in realtà proprio nel suo raccontarsi si a
Colpisce in questa riflessione estetica l’assenza di intimismo, che pone le opere in galleria su un livello opposto rispetto alle funeree rappresentazioni di Christian Boltanski (Parigi, 1944), o alla List of names (1999) di Douglas Gordon (Glasgow, 1966). In Favini l’incontro presentato attraverso una mediazione formale riesce a scavalcare infatti il drammatico trascorrere del tempo che caratterizza il lavoro degli altri due artisti.
L’abolizione delle ambiguità si ritrova anche nel progetto Verde curato da, che ha valso a Favini il premio Premio Artegiovane Milano e Torino incontrano… l’Arte – 2006, dove nonostante si tratti il suggestivo tema campagna-periferia, non sembra farsi trascinare da retorici intimismi diaristici.
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