Le sculture di
Matthew Spender (Londra, 1945; vive a Gaiole in Chianti, Siena) vengono da lontano. Sono avvolte in un’atmosfera senza tempo, come idoli di civiltà sconosciute, frutto di mitologie matriarcali. Rappresentano soprattutto figure femminili; bagnanti e madri, figure immote o in cammino, avvolte in un’essenzialità di tratti levigati ed espressioni austere, hanno tratti primitivi e semplificati, ma proprio per questo a misura d’eternità.
È il ‘91 quando Spender inizia a dedicarsi alla scultura, dopo la pittura. Fin dalle sue prime terrecotte coltiva un serrato dialogo con le forme classiche. Sarcofaghi e canopi etruschi, le sculture di
Arturo Martini e
Giovanni Pisano sono tra i principali interlocutori con cui si confronta. Spender cerca di riparlare una lingua antica, ma in grado di costringere lo spettatore a un cortocircuito temporale. Le sue opere sfruttano un’ingenuità profonda, in grado di scavare nel presente, recuperando forme e volti senza tempo,
dando un carattere di passato anche al nostro quotidiano.
Con il passaggio prima al marmo e in seguito alla composizione di pietre diverse, l’opera di Spender si apre al colore, approdando infine alla terracotta smaltata, in cui le tinte di acconciature, vestiti e complessi floreali rimangono in bilico tra pop e kitsch. Significativamente, con il colore anche la sua poetica amplia i propri riferimenti. Commesse e bariste, prostitute e cantanti prendono il posto degli idoli materni, facendo progredire la ricerca spenderiana dal mito senza tempo al racconto del quotidiano, dopo aver già precedentemente sviluppato tratti autobiografici, come nella drammatica serie
Mio padre morto.
Un discorso a parte merita l’attenzione dell’artista inglese per la capigliatura femminile. In contrasto con le forme sobrie e le espressioni austere dei volti scolpiti, le acconciature delle sue donne si fanno più ardite, rappresentando il punto in cui la licenza artistica raggiunge il massimo grado di libertà. Tanto da meritare il titolo dell’opera, come avviene in
Acconciatura serpentina, in cui le ondulate curve dei boccoli scolpite nel marmo realizzano in un complesso e ricco intreccio di forme la suggestione di un’innocua Medusa piena di grazia.
Nella mostra al Castello Sforzesco sono ben tre gli spazi dedicati all’antologica dell’artista inglese, che da quarant’anni vive in una casa sulle colline senesi, immortalata da Bernardo Bertolucci in
Io ballo da sola. L’allestimento si sviluppa per stanze in grado di ampliare la tensione narrativa degli ultimi lavori, creando spazi che accentuano il dialogo delle sculture e dei dipinti, facendone i protagonisti di una storia a cui i visitatori assistono.
Ma sono le terrecotte nel cortile più interno a ricevere la maggior valorizzazione espositiva, trovando nel contrasto tra il loro monocromo e le pareti in mattoni che vi fanno da sfondo una risonanza che accresce il loro fascino arcano, come se ne fossero da sempre le abitanti.