1946-2004: è questo l’orizzonte scandagliato dall’occhio intrusivo del fotografo
Richard Avedon (New York, 1923 – San Antonio, 2004). Cinquant’anni di storia e personaggi che restituiscono un luminoso ritratto del mondo occidentale
post war. Duecentocinquanta circa le fotografie esposte da Forma, a testimoniare un lavoro versatile, consumato insieme a poeti, scrittori, musicisti, artisti.
Le fotografie di moda -a lungo le uniche a destare attenzione- introducono la mostra, aprendo una finestra sulla Parigi del secondo dopoguerra, in corsa per tornare a essere la capitale della
haute couture. Con “Harper’s Bazaar”, l’artista ha l’occasione di scardinare l’obsoleta estetica imperante e di osare con scatti come la celebre
Diovima e gli elefanti al circo d’inverno. Abito Dior, 1955, dove alla leggerezza della seta contrappone la pelle ruvida dei pachidermi, inaugurando un’ambientazione del tutto inedita.
Già da questi fotogrammi si evince la precisa volontà e capacità di creare “immagini”, alla maniera di un regista (a ispirarlo è l’ungherese
Martin Munkacsi, che aveva visto scegliere come sfondo un albero di New York solo perché aveva la stessa corteccia di quelli che si trovano sugli Champs-Élysées).
Gli anni ’50, ’60 e ’70 (e fino a oggi), sono raccontati nei ritratti delle star -Marilyn Monroe, Bob Dylan, Dinensen, Eisenhower, Malcolm X, Ezra Pound, Beckett, solo per citarne alcuni- che trovano spazio intorno alla gigantografia di
Warhol con la Factory.
Approfondendo la ricerca sul ritratto, iniziata nei primi anni ’40 come fotografo di identikit per la marina mercantile, Avedon mette a punto un modello “da studio” attraverso il quale affronta, come su un ring, i suoi soggetti. Lo sfondo è bianco, lo sguardo è quasi sempre fisso sull’obiettivo; i bordi del negativo incorniciano lo spazio, neri, come in un ciak (la devozione al cinema traspare nella dinamicità dei corpi). I volti colpiscono per intensità lo spettatore, che li avverte presenti: lo scambio di emozioni trasmesse tra il fotografo e le sue vittime trasuda la fatica e l’aspettativa dei divi, pericolosamente ma gloriosamente finiti sotto il suo obiettivo. Avedon si appropria della superficie per rivelare l’immagine che desiderano riflettere di sé, restituendo il frutto di un’intesa complice, piuttosto che una pretesa di realtà (la serie sul cancro del padre ne è un esempio).
A chiudere è il ciclo
In the American West (fine anni ’70-inizi anni ’80, 752 persone ritratte, 125 fotografie selezionate),
dove Avedon innalza sul suo piedistallo l’uomo comune, combinando il ruolo di co-creatore di immagini con quello di documentatore. La relazione con quei ragazzini allegri ritratti per le strade d’Italia negli anni ’40 e con i volti amari dei berlinesi nel capodanno del 1989 esiste, seppur nelle differenze, nell’unicità di un punto di vista mai scontato, che non pretende di essere assoluto, ma è sempre estremamente personale.
Fedele alle sue ultime volontà, la scelta di congedare lo spettatore con il suo riflessivo (e triplice) autoritratto. Dove ciò che vediamo è, per l’ultima volta, ciò che lui aveva deciso di mostrare.