C’è una nuova attenzione a Milano, pare, nei confronti della fotografia e non solo. La differenza la fanno, ancora una volta, gli spazi privati; ma anche il pubblico, nel suo piccolo, cerca di far qualcosa. Sembra strano, ma negli ultimi tempi ci sono parecchie cose interessanti da vedere in città. Difficile dire da dove nasca questo fermento, ma è senz’altro ben accetto e si spera che prosegua in questa direzione.
Così, finalmente, anche
Daido Moriyama (Osaka, 1938; vive a Tokyo) arriva in Italia. Si tratta, infatti, della prima mostra personale nel nostro Paese dell’artista giapponese; anzi, di uno dei maggiori fotografi giapponesi. Meglio tardi che mai.
Lo Studio Guenzani, da sempre attento alla fotografia, ospita alcuni scatti dell’autore. Pochi ma esemplificativi. Parlano di Tokyo, di quella metropoli fatta di folla e di luci al neon che conosciamo almeno attraverso i film e la televisione.
Il suo sguardo è sempre lo stesso, quello di chi è travolto da quella stessa folla che cerca di fotografare e che non riesce a vedere cosa vorrebbe inquadrare. Pare, ma ovviamente non è così. Perché abbiamo già imparato a conoscere questo stile grazie all’opera di
William Klein. Uno stile che irride non solo il momento decisivo bressoniano, ma innanzitutto la sua forma. Che ha saputo dare una risposta diversa all’antica idea di compostezza e perfezione. L’espressione di un altro modo di vedere, più vicino a ciò che siamo diventati.
Se si sfogliano i libri di Klein, quelli d’epoca – con il nero che pare inchiostro rovesciato sulla pagina e la carta opaca, ruvida, che quasi sporca le dita – si finisce per provare quasi un senso di nausea. Le inquadrature difficili, audaci, apparentemente casuali, i soggetti prima lontani e poi vicini, troppo vicini, addirittura tagliati, la grana evidente, sempre presente, sopra i palazzi, sulle persone, nel cielo, come una texture e, ancora, particolari enormi che soffocano l’immagine. Si prova lo stesso senso di nausea e di vertigine davanti al lavoro di Daido Moriyama. Le stesse impressioni che, del resto, si provano ancora oggi, se non si è troppo assuefatti, atterrando nella Grande mela o in qualche megalopoli asiatica.
Gli scatti di Moriyama, a prima vista, sembrano semplici appunti visivi, note prese di fretta su un taccuino da viaggio, dove tutto ha più o meno la stessa importanza e dove un palazzo di nuova costruzione vale quanto una passante che attraversa la strada o un cane che si volta a fissare l’obiettivo.
Le sue immagini, invece, costituiscono, nel loro complesso, un corpus estremamente coerente, il cui linguaggio espressivo è esattamente come la realtà che descrive: distorto, confuso, violento.