Lo spaesamento, la stasi emotiva, in ultimo la deterritorializzazione dell’individuo contemporaneo sembrano il vero soggetto delle opere di
Vladimir Kupriyanov (Mosca, 1954). Poco importa se l’individuo provenga da regimi totalitari o dal calderone liberal-consumista che si autodefinisce Occidente. Ciò che può mettere in collegamento empatico artista e spettatore è la capacità del primo di astrarsi da se stesso, anche quando fa ricorso alla propria storia personale.
Nessun particolarismo, dunque, nell’arte semipolitica e semiconcettuale dell’artista russo, anche se la personale elaborazione del suo contesto storico e politico non può essere ignorata. Salta agli occhi, nel misto di distacco e sensibilità che dà forma alle sue “
composizioni fotografiche”. Trattate con materiali poveri ma caldi emotivamente e formalmente, le sue fotografie toccano punti sensibili della storia sovietica e di quella personale dell’artista. La carta colorata che astrattizza gli scatti, i pezzi di vetro sovrapposti, le iterazioni frammentate congelano parzialmente tali immagini.
Ma, allo stesso tempo, questi espedienti tecnici universalizzano la valenza delle scene raffigurate: lo sradicamento, la trasformazione della memoria personale in forzato archivio collettivo, la sensazione che i ricordi sbiadiscano dopo pochi istanti dall’evento simboleggiano anche la situazione della Russia post-sovietica e quella del mondo occidentale.
La strategia di Kupriyanov contempla l’utilizzo delle armi estetiche del regime oppressivo, anche se svisate: l’eloquenza della propaganda viene calmierata e volta verso un progressismo nostalgico ma non collaborazionista. Il pezzo esemplare di questo atteggiamento è il trittico
Metrò Taganskaya, che riprende il gigantismo iconografico del regime stalinista, ma lo mette in discussione tramite il taglio dell’inquadratura e la perizia estetica. La foto assume proprietà plastiche, simulando la tridimensione con la sensualità delle superfici riprodotte e il trattamento dell’immagine.
La tensione scultorea e installativa con cui sono trattate le altre fotografie può essere letta come un’“impaginazione”, simbolo del lavorio della memoria che riorganizza i ricordi, e soprattutto simbolo della vita sociale delle immagini, che ne altera i connotati originari. Tra questi lavori spiccano
Festival ’57, che racconta il disgelo sotto Krushev;
Non respingermi dalla tua presenza, sulla speranza post-1989; e
Tipi del volga, che afferma e nega contemporaneamente la sussistenza delle tradizioni.
La galleria Impronte inaugura così, con Kupriyanov, la propria attività. Risulta sin d’ora evidente il taglio mirato della sua linea, concentrata sull’arte di ricerca proveniente dalle repubbliche post-sovietiche o da altri Paesi “alla periferia dell’impero”. Il testo in catalogo di Viktor Misiano, uno dei principali esperti d’arte russa, è un biglietto da visita promettente, così come la conformazione dello spazio espositivo, articolata e stimolante.