Insieme
a Pietro, Paolo è senza dubbio una delle figure più rappresentate del Nuovo
Testamento, fin dalla prima antichità cristiana.
Difficile
allora render contezza delle complesse dinamiche, storiche e sociali, che
stanno dietro ai diversi modi di effigiarne il volto, in un arco di tempo che
va dal III secolo dell’era cristiana alla prima metà del Seicento. Soprattutto
chiamando a raccolta solo nove opere, che qui si gustano più per la loro
qualità, altissima, che per la ragione prima per cui si trovano esposte in una
stessa sala.
Nella
Roma del III secolo, mentre l’espressione libera della religione cristiana è
costantemente messa a rischio e si continuano ad adorare gli dei del mondo
pagano, il ruolo di conservatore del pensiero alto del mondo occidentale viene
unilateralmente riconosciuto alla figura del filosofo. La nuova religione sente
allora il bisogno di assimilare le proprie figure-guida a quest’immagine, in
modo da dare legittimità al messaggio che le scritture portano nella cultura
greco-romana.
Nessuno,
più di Paolo,
meglio si presta a quest’assimilazione: fine oratore e inventore
d’una prosa capace di abbassare i toni della trattatistica all’immediatezza
comunicativa dell’epistola, sempre rivolta al popolo, tanto da esser passato
alla storia come “
apostolo delle genti”.
In
mostra, la
Testa ritratto di tarda età imperiale del Museo Ostiense, fisionomia
idealizzata di un filosofo, si contrappone al suo ritratto, simile nei tratti
fisiognomici, cesellato sulla splendida
Lipsanoteca del museo di Santa Giulia (IV
secolo inoltrato), ove la cadenza ritmata delle scene scolpite sui sarcofagi
romani si presta agli episodi e ai simboli dell’immaginario cristiano.
Come
filosofo e comunicatore, il volto di Paolo – il capo calvo e la barba nera a
due cuspidi – appare identico in alcune statuette del IV secolo e nella
rarissima
Lucerna bronzea dell’Archeologico di Firenze. L’iconografia classica giunge fino al
Quattrocento, e si vede ancora nel polittico di
Antonio Vivarini e
Giovanni d’Alemagna (1440-45 ca.) del Diocesano di
Brescia.
Cambia
invece completamente nella
Conversione di Saulo del bresciano
Moretto (1540 ca.). Probabilmente a
partire da
Raffaello, che nella pala di Santa Cecilia ritrae il santo giovane, ben fornito
di muscoli e capelli, la
tranche de vie dell’apostolo prediletta diviene quella precedente
la maturità.
L’episodio
della conversione di Saulo, il nome al secolo di Paolo, rimane uno dei più
ripresi, anche grazie al grande impatto scenico offerto alle composizioni manieristiche
dalla caduta da cavallo del giovane, folgorato sulla via di Damasco. Singolare
invece la scelta di
Giovanni Serodine, uno dei più intelligenti interpreti di
Caravaggio, di rappresentare la poco nota
Separazione
di Pietro e Paolo.
Che
grande forza psicologica lo sguardo fisso di Paolo, a pochi centimetri dal
volto di Pietro, a segnare con inaudita potenza un’intesa e una complicità che
non cedono di un passo, nemmeno di fronte alla morte incipiente. Un patto
sancito dall’ultima stretta di mano, nella baronda armeggiante dei gendarmi, a
mezzo fra i retaggi del barocco classicista di
Pietro da Cortona e i golfi d’ombra caravaggeschi.
Come se
l’ombra potesse scavare la carne, e la scava, fino all’osso, nel braccio teso e
sospeso del soldato in primo piano, vero regista dell’intera scena.