Le gallerie che lunedì 7 febbraio inauguravano laddove hanno sede, fra l’altro, anche le redazioni dei magazine del gruppo Abitare, erano tre. O meglio quattro, poiché lo Studio Manuela Klerkx organizza la propria doppia personale nei locali di Arnaud. Il nostro tour nella Milano glamour di via Ventura parte proprio da quest’ultimo evento. Si tratta di una singola proiezione dove scorrono uno di seguito all’altro i video delle gemelle omozigote Liesbeth & Angélique Raeven (Olanda, 1971. Vivono ad Amsterdam), intitolato Sibling Rivalry (2004), e di Julika Rudelius (Colonia, 1968. Vive ad Amsterdam), dal titolo Train (2001) e The Highest Point (2002). La cifra comune che permette di far susseguire i lavori senza ombra di forzatura è, almeno a un primo sguardo, il taglio “documentaristico”: soggetto-oggetto è la tematica del femminile e la critica nei confronti dei media, focalizzata su una cultura del corpo-sesso evidentemente ancorata a stilemi e ossessioni prettamente maschili(sti).
Se dunque le gemelle olandesi si concentrano sulla tematica del doppio e del lusso, la tedesca Rudelius sfora nettamente nel “genere” documentario. Ma se nel secondo video quest’aspetto può apparire invasivo (il tema è l’(auto)erotismo femminile), nel primo si può apprezzare l’acribia nel confondere il confine fra reportage e fiction, in un certo senso vicino al modo in cui lavora Ahtila. Le interviste ai teenager di Train sono infatti guidate dall’artista stessa, il treno è preso in affitto e inoltre è stato chiesto ai ragazzi di esagerare alcuni aspetti della propria personalità.
Appena qualche scalino più in alto, dagli spazi della galleria Zero proviene un frastuono giustificato dal titolo stesso del lavoro di Hans Schabus (Watschig, 1970), Schallplatte (2001). Da uno stereo poggiato a terra, accanto al quale è riposta un pila di LP omonimi, scaturisce un suono facilmente riconoscibile, cioè quello provocato da una sega circolare che in un presunto loop taglia e gira a vuoto, per poi ricominciare finché termina il solco tracciato nel vinile. Un lavoro nato dal lavoro, “memoria del fare” dell’artista stesso nel suo atelier, che può ricordare le performance di David Rubin, però caratterizzate da un piglio meno engagé e più teutonicamente minimal-teoretico.
Last but not least, le tre personali allestite nei locali di Massimo De Carlo. In sala 1 la mostra di Paola Pivi (Milano, 1971. Vive a Londra) dal titolo provocatorio Fant ass tic. Il gusto raffinato per la destabilizzazione torna ancora una volta dopo, per esempio, le zebre fotografate sulla neve, e si tratta -oltre ad alcune grafiche e disegni- di una serie di scatti della serie che è finita anche come copertina di un recente numero di Flash Art. A torniti glutei femminili, candidamente nudi, sono applicate sedute che hanno fatto la storia dell’interior design, ma il rapporto fra i due elementi è assolutamente non funzionale, per cui le minuscole sedie paiono pudichi e improbabili appendici che coprono la parte più scatologica dell’ass. In sala 2, con la curatela di Paola Clerico, scorrono le immagini di Hockey (2004), video firmato da Annika Larsson (Stoccolma, 1972. Vive a New York). Solo lo stridore del ghiaccio ferito dalle lame dei pattini e una notevole “colonna sonora” che strizza l’occhio al drum’n’bass (a opera di Larsson e Tobias Bernstrup), la fisicità dello sport, nessuna parola pronunciata. E uno stadio spettralmente vuoto, dove siedono solo i due coach. In sala 3 si chiude con un ritorno al minimalismo silente di John McCracken (Berkeley, 1934. Vive in Messico), con tre lavori Eighties che continuano ad affascinare nella loro lucida stentoreità. Si tratta delle ben note lastre prodotte non industrialmente, che organizzano radicalmente ma senza clamore lo spazio ove sono installate. Complici in questo caso anche le dominanti calde e gli effetti di lucidatura, tenui e ipnotici.
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Certo, riuscire a far uscire soldi da "seratine" del genere è proprio roba da illusionisti.
Ma come si dice: dove c'è gusto non c'è perdenza.
Un complimento a tutti i croupier di via Ventura