La fotografia è frutto di scelte, facili o logoranti, improvvise o meditate. L’illuminazione, l’inquadratura, il fuoco, il momento in cui trattenere il fiato e scattare. Oppure, di fronte a un foglio di provini a contatto, quando si deve eleggere un’immagine sola a discapito di tutte le altre.
William Klein (New York, 1928) porta l’intimità di questo momento a una dimensione pubblica, riscoprendo e rinnovando i motivi della scelta.
Il tutto nasce, con sorpresa dello stesso fotografo e cineasta americano, dall’ingrandimento di alcuni provini. I segni tracciati a penna su di essi s’ingrossano, lasciando emergere le loro potenzialità espressive. Klein sostituisce i segni originali, ripassandoli con squillanti colori a smalto, ottenendo risultati di un dinamismo spettacolare. Innanzitutto, ricalca il cerchio della scelta, la croce della rinuncia. Ma prosegue, ricoprendo sempre più liberamente la superficie, aggiungendo campiture ulteriori e altri segni, frecce o frammenti di testo.
È così che scopre i suoi
Contacts, che costruiscono un ponte grafico tra pittura e fotografia. Le sue pennellate ampie, dense, cariche di colore, non limitandosi soltanto ad accentuare i segni originari sulla pellicola, rimanendo cornice esterna all’immagine fotografata, entrano in dialogo con essa, le donano una rinnovata vivacità e forza ulteriore, talvolta prendendo addirittura il sopravvento.
Tra i cinquanta
Contacts in mostra, si segnalano oltre al violento e celeberrimo
Gun 1, il glaciale
Smoke + Veil e la serie
Rugby, che immortala le scene televisive di una partita con l’annuncio della morte del papa in sovrimpressione.
La sala accanto è dedicata alle irreali e malinconiche
Storie d’inverno di
Paolo Ventura (Milano, 1968).
L’ultima stagione dell’anno esprime simbolicamente, secondo le intenzioni dell’artista, l’ultima stagione della vita, mettendo in scena gli ultimi ricordi di un vecchio morente. Ciascuna immagine è, come di consueto, costruita a tavolino attraverso un elaborato set, accuratissimo e ricco di dettagli, ricostruendo ciascuna un piccolo racconto, l’immagine di una storia che saranno gli spettatori a riempire di significato.
Sono scene di un’epoca imprecisata e lontana, spesso avvolte da una luce opalescente, come se affiorassero dalle foschie al confine tra la memoria e l’oblio. Riuniscono verosimile e fantastico, come archetipici ricordi d’infanzia, comuni a ciascun spettatore. Mettono in scena equilibristi, clown e acrobati, personaggi felliniani di un circo decandente, uomini fantastici con la testa d’uccello, luna park desolati e struggenti stanze vuote, tra vetrine e scaffali impolverati.
Ma la vera protagonista di queste immagini visionarie è proprio la loro suggestione fabulatoria, che dispone lo spettatore a fantasticare e a perdersi nelle loro trame.