Il sostantivo “tela” può designare un quadro e al tempo stesso un tessuto. Non per caso. L’ambivalenza evidenzia quanto siano correlate l’arte e la moda. Quest’ultima si è spesso ispirata alla prima ed è a sua volta una forma di espressione, tra influenze e contaminazioni reciproche. Entrambe emozionano, ammaliano, catturano lo zeitgeist di un’epoca. Questo stretto legame è il tema della mostra “L’arte della moda – L’età dei sogni e delle rivoluzioni 1789 – 1968”, aperta al pubblico fino al 2 luglio al Museo Civico San Domenico di Forlì, diretta da Gianfranco Brunelli e curata da Cristina Acidini, Enrico Colle, Fabiana Giacomotti e Fernando Mazzocca. L’esposizione forlivese, con un allestimento curato dallo Studio Lucchi & Biserni, si è avvalsa della collaborazione di prestigiosi musei nazionali e internazionali, quali, fra gli altri, il Musée d’Orsay di Parigi, il Kunstmuseum de l’Aia, la Klimt Foundation e il MAK di Vienna.
La mostra è imponente sia per l’arco temporale coinvolto – dall’Ancien Régime al secondo Novecento – che per i numeri: oltre 300 opere, 100 artisti e 50 stilisti. Vanta nomi del calibro di Tintoretto, Francesco Hayez, Giovanni Boldini, Henri Matisse, Giacomo Balla, Fortunato Depero, Piet Mondrian, Umberto Boccioni, Giorgio de Chirico, Andy Warhol, Damien Hirst, Mariano Fortuny, Paul Poiret, Elsa Schiaparelli, Coco Chanel, Cristóbal Balenciaga, Valentino, Giorgio Armani, Ferragamo, Gucci, Dior, Tom Ford, solo per citarne alcuni.
Agli estremi del percorso espositivo si collocano due rivoluzioni, quella Francese e quella studentesco / femminista degli anni Sessanta. In effetti, già a partire dal titolo appare chiaro il concetto del cambiamento come valore. Da un lato, è tipico dell’arte veicolare istanze d’avanguardia e talora perfino di rottura. Dall’altro, pur mutando di continuo, la moda implica anche imitazione, riconoscibilità dello status sociale e quindi consenso, che è un elemento conservativo piuttosto che innovatore. La contraddizione insita nella moda emerge oggi in misura ancora maggiore, dato che l’incessante evolvere delle collezioni deve fare i conti con esigenze di sostenibilità sempre più urgenti, tendenzialmente orientate verso il permanere atemporale delle creazioni.
La mostra si articola attraverso una serie di confronti, basati sulla moda dipinta, scolpita, realizzata dai couturier. Abiti e ritratti dialogano tra loro. Così, ad esempio, al dipinto di William Hamilton in cui Maria Antonietta è condotta al patibolo fa da contrappunto un sontuoso abito da sera in stile settecentesco di John Galliano per Dior.
Altrove, una creazione di Mila Schön ispirata a Lucio Fontana è correlata a una tela con i celebri “tagli”, mentre il Delphos in seta con sopravveste in velluto (1920 circa) di Mariano Fortuny è accostato a una Kore di tipo Eleusi della fine del II secolo. Dopo aver ammirato il Ritratto della Contessa Mara Braida Carnevale di Paulo Ghiglia, ci si stupisce nel trovare l’abito indossato dalla nobildonna fuori dalla tela, con un effetto straniante che moltiplica le dimensioni della narrazione e sfiora quasi la mise en abyme.
«Disegnare abiti non è una professione, ma un’arte», ha affermato Elsa Schiaparelli. Sia la moda che l’arte, in effetti, tendono a reinterpretare la realtà. E nel passare da una sala all’altra della mostra di Forlì il reale, a poco a poco, si tramuta in un sogno ad occhi aperti che sarebbe piaciuto a Jorge Luis Borges.
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