Come per ogni settimana della moda, terminata la girandola di sfilate, presentazioni, eventi vari ed eventuali della Milano Fashion Week Fall/Winter 2023-24, si possono tirare le fila di un’edizione della kermesse meneghina tornata, ormai, ai ritmi pre-pandemici. Prendendo in considerazione le proposte dei marchi più “titolati” (dedicate al ready to wear femminile o co-ed, cioè con uomo e donna sulla medesima passerella), sembrano emergere due spinte contrapposte, una tendente al massimalismo, al dress to impress, come direbbero gli anglofoni, a colpi di cromie accese e pezzi pensati espressamente per farsi notare, l’altra incardinata sul ritorno a uno stile ponderato, solido, rispettoso dei principi aurei del ben vestire; contrasti destinati a convivere nei guardaroba per l’autunno/inverno che verrà, riscontrabili anche nelle collezioni elencate di seguito.
In casa Diesel lo spartito, rispetto alle ultime stagioni (che hanno sancito il rilancio travolgente della griffe), non cambia, anzi; il direttore creativo Glenn Martens preme sempre più sull’acceleratore, com’è evidente dalla montagna rossa che torreggia al centro del setting, 200.000 confezioni di preservativi Durex, anticipazione di una capsule collection in uscita ad aprile. Un inno alla positività sessuale, dunque, e i look, va da sé, si adeguano all’atmosfera libertaria che pervade lo show. Lo stilista belga dà libero sfogo alla propria verve rutilante, sfrenata, in costante equilibrio tra edonismo e compiaciuta provocazione, ironia e sperimentalismo, capacità di solleticare il desiderio dei consumatori con accessori rivelatisi instant cult (si veda la borsetta con l’iniziale D inscritta in un ovale) e una perizia esecutiva che gli consente di manipolare a suo piacimento un materiale ostico come il denim. Proprio il jeans, infatti, è protagonista assoluto del défilé, (mal)trattato in ogni modo possibile e immaginabile, abraso, sabbiato, stinto, macchiato di vernice, consumato fino ad assumere la consistenza della carta velina, rivelando generose porzioni di pelle.
A enfatizzare il coté sensuale delle mise provvedono, poi, le forme, generalmente striminzite e cadenti, tra pants che lasciano scoperti i fianchi, top esigui, scollature, minigonne, slip dress trattenuti appena da catenelle o clip metalliche, contrappuntate dai volumi imponenti dei capispalla. In questi ultimi trova massima espressione il virtuosismo tecnico dei laboratori Diesel: si susseguono cappotti in jersey che replicano la texture della pelle screpolata, fake fur di recupero, sferzate da pennellate pop o sottoposte a finissaggi “estremi”, giacche da motociclista così grumose da ricordare le combustioni di Burri. Sul finale irrompono le serigrafie, riproduzioni iperrealistiche di volti sorridenti, ad aggiungere un’ulteriore nota dissonante al pastiche di Martens, godereccio e naïf al tempo stesso.
Nella sala fumosa, délabré al punto giusto del Garage Ventuno, quartier generale del brand, Alessandro Dell’Acqua tesse un’ode a quella femminilità ineffabile, lambiccata eppure disinvolta, conturbante ma sofisticata, che è la ragion d’essere di N°21. La sfilata A/I 2023 della label è da considerarsi una summa del lavoro compiuto, negli anni, dal designer partenopeo, riuscito nell’impresa di amalgamare elementi all’apparenza inconciliabili, compostezza e licenziosità, capisaldi dello stile bourgeois (tubini, longuette, maglioni, soprabiti…) e soluzioni rubate all’underwear. Anche stavolta continua, imperterrito, a demolire (presunti) dogmi e cliché relativi alla moda femminile, mettendo nero su bianco, nel comunicato ufficiale, l’intento di «trasformare la regola in un’opportunità di cambiamento, stravolgere le abitudini, riportare anche i riferimenti a una collocazione spiazzante, non didascalica, per mettere in crisi le certezze».
L’orizzonte di riferimento è il cinema degli anni ‘60, che sublimava in attrici alla Jeanne Moreau o Monica Vitti i fermenti del tempo, la voglia diffusa di liberarsi di norme e abitudini (anche) vestimentarie percepite come opprimenti. Tutto ciò si traduce, sul catwalk, in un esercizio stilistico teso a esaminare – e rileggere – shape, proporzioni, resa degli outfit. D’altronde, da N°21 gli opposti si attraggono, integrandosi alla perfezione, perciò la sottoveste s’indossa con pullover e filo di perle, la camicia con la gonna in satin laccato, gli shorts con l’overcoat di foggia maschile; négligé, bluse trasparenti e altri archetipi dell’abbigliamento da camera, equiparati ai grandi classici del prêt-à-porter, sono declinati in versioni sontuosamente decorate, tra ricami intricati, riflessi cangianti, filati brillanti, mentre bra e culottes occhieggiano qua e là, evidenziate da una spallina artatamente scesa o un orlo troppo corto.
Cardigan e giacche possono chiudersi sul retro, usando spille dalle fattezze di uno scorpione, scarpe e borse concorrono all’operazione di decostruzione – e conseguente valorizzazione – dei suddetti stereotipi, con le prime che dietro l’aspetto sobrio, quasi austero della décolleté con cinturino celano svettanti plateau ricurvi, e le seconde che scelgono silhouette, motivi e tonalità considerate generalmente leziose, dal maculato all’azzurro polvere, in un elogio dell’imperfezione, dell’abbinamento inconsueto – ma ammaliante – che Dell’Acqua padroneggia come pochi altri.
A tre anni esatti dal varo della co-direzione artistica di uno dei marchi più influenti al mondo, l’intesa tra Miuccia Prada e Raf Simons si è decisamente affinata, tanto che risulta complicato capire dove finisca l’apporto dell’una e cominci quello dell’altro. Con l’A/I 2023, la power couple modaiola per eccellenza prosegue la riflessione sui concetti di bellezza e funzionalità avviata qualche stagione or sono («la ricerca della bellezza in ogni dove e in qualunque forma è alla base della collezione», puntualizza la Signora), e mai come in questo caso appare lapalissiano che, nella loro visione, i termini si sovrappongano fino a divenire indistinguibili. Nell’enorme antro del deposito della Fondazione Prada, tra colonne ricolme di gigli bianchi (leitmotiv decorativo delle 54 uscite), non c’è dunque spazio per fronzoli od orpelli (Miuccia dichiara d’altra parte di «odiare la concezione del glamour»); l’ispirazione, piuttosto, proviene dalle «uniformi che rappresentano la cura, come quelle delle infermiere, perché occuparsi degli altri è una cosa bellissima».
Ecco allora che, in pedana, si avvicendano ensemble basici, quintessenziali: scamiciati, golf di lana sulle gonne (tantissime, perlopiù bianche e a ruota, dal flair romantico, traboccanti di petali, ramages e boccioli, ad accentuare il senso di tridimensionalità del capo), tailleur, paltò, camicie immacolate… A fare la differenza sono la perfezione dei tagli, nitidi, affilati come rasoi, l’impeccabilità delle forme, alternativamente smilze e avvolgenti, scattanti e morbide, i “pradismi” ad effetto assortiti, in grado di elevare all’istante il look, siano essi gli svolazzi di tessuto che erompono dalla punta delle décolletées, i candidi completi imbottiti, simili in tutto e per tutto a un piumone, i colletti maxi che sbucano da blazer e cappotti, le bag dalla linea a trapezio in nuance zuccherose, pronte a far sdilinquire fan della maison e fashioniste alla perenne ricerca dell’accessorio du moment, le cromie ora vezzose, appunto (giallo paglierino, menta, rosa confetto), ora smaglianti (rosso fiammante, arancione) che donano un quid di vivacità alla sinfonia di neri, blu, grigi e marroni orchestrata dal duo.
Un minimalismo 2.0, insomma, che campiona e aggiorna i lemmi estetici cari agli stilisti, infondendogli un senso di solidità e appropriatezza, coerente con l’impostazione di fondo della sfilata, ossia «dare importanza alla quotidianità, perché la vita di tutti i giorni merita cose belle e ogni singolo giorno vale».
Alla sua terza prova da designer della griffe vicentina, si delinea con chiarezza via via maggiore la direzione impressa da Matthieu Blazy allo stile firmato Bottega Veneta: tutto ruota intorno a creazioni artigianali di squisita fattura, che poco o nulla concedono alla spettacolarità fine a se stessa, al coup de théâtre buono solo per la passerella, lasciando che a parlare siano la pregevolezza senza pari dei materiali, l’eccellenza delle lavorazioni, la vestibilità lusinghiera e, non ultimi, i tocchi inaspettati che suggellano la straordinarietà – nel senso letterale della parola – dell’abito o accessorio di turno.
Nella proposta in questione, poi, è proprio l’inatteso ad assumere un ruolo preminente, configurandosi come unico, vero collante di mise volutamente disomogenee, diversissime, per rimarcare la singolarità irripetibile di ciascuna di esse, come avviene del resto nelle vie di una metropoli qualsiasi, dov’è impossibile incrociare due outifit identici; non per niente, rivela il creative director, a orientare il suo lavoro è stata la nozione tutta italiana della «parata», intesa come «uno strano carnevale, una folla di persone provenienti da ogni luogo e ogni dove, eppure, in qualche modo, tutte trovano il loro posto e vanno nella stessa direzione».
Nella processione – invero stilosa – di Bottega Veneta saltano, perciò, gerarchie, denominatori comuni, rimandi tra le uscite, a prendersi la scena sono, invece, gli outfit di sopraffina qualità citati, ovvero – per lei – dress scivolati, pull XXL a trama grossa, set coordinati solcati da embroideries, per lui pajamas dall’appeal formale, pantaloni décontracté, maglie lunghe fino ai piedi, a mo’ di tunica, per entrambi una sfilza di impermeabili dal piglio vagamente militaresco, che esibiscono spalle sagomate e fit sciancrato, stretti in vita da cinture tono su tono, e ancora frange, applicazioni, inserti a contrasto, in una mescolanza di codici, volumi e tecniche che rendono merito all’abilità degli artigiani BV, dispiegata nell’intreccio paradigmatico del marchio (che la fa da padrone, ovvio, sulla pelletteria), nei ricami in seta handmade, nei manici in vetro soffiato della borsa Sardine, nel profluvio di squame e piume.
Il trait d’union, in una tale, eterogenea mole di pezzi, può essere forse individuato nelle illusioni ottiche che, al solito, abbondano nelle collezioni di Blazy, tra calzini che sembrano di lana ma, in realtà, sono realizzati in pelle intessuta, flanella che si rivela nappa e così via; “inganni” che contribuiscono a ricreare «l’alchimia della strada», come la definisce lui (un’alchimia über chic, aggiungiamo noi).
Atteso alla conferma dopo il buon esordio dello scorso settembre, Maximilian Davis (enfant prodige della moda brit, da un anno alle redini di Ferragamo) può mettere ancora più a fuoco la sua idea di cosa sia e rappresenti, oggi, una maison dall’heritage glorioso come quella fiorentina che, tuttavia, ha storicamente faticato a darsi un’identità stilistica forte, riconoscibile; per delinearla al meglio, il creativo di origini caraibiche torna dove tutto ebbe inizio, a Hollywood, capitale del cinema che consacrò il capostipite, semisconosciuto emigrato italiano, nel «calzolaio dei sogni» (come da titolo dell’autobiografia di Salvatore Ferragamo, trasformata da Luca Guadagnino in docufilm), shoemaker prediletto dal gotha di allora.
Davis s’ispira quindi alla golden age hollywoodiana, all’eleganza inappuntabile di dive come Marilyn Monroe o Sophia Loren, clienti affezionate del brand («ho guardato al loro glamour, alla loro bellezza, al loro modo di vestire, pensando a come renderlo moderno nel presente», scrive nelle note stampa). Attinge dagli archivi, recuperando ad esempio must della casa quali la Wanda bag (rieditata in innumerevoli varianti) o il foulard, le linee a campana o cocoon, esemplari della couture di metà secolo, i gioielli in bachelite, le fantasie esotiche usate negli anni ‘50.
In questa trasposizione dei cardini di Ferragamo nell’hic et nunc, però, non c’è traccia di nostalgia né di passatismo, perché subentra il tratto graffiante, teso, ipergrafico del direttore artistico, che purifica e slancia le silhouette classiche di cui sopra, sfalsa la figura attraverso tagli di sbieco e asimmetrie, scorcia gli orli, assottiglia la vita, impiega filati performanti (nylon, gabardina di lana stretch) o luminosi (vernice, lamé, denim metallizzato), distribuisce sulle superfici fenditure che rivelano strati sottostanti di colore, a contrasto (carminio su nero, bianco su blu), aperture geometriche, borchie o zip che corrono lungo i profili degli indumenti, sporca la linearità dei look più tradizionali con innesti dal mondo biker.
Il discorso è identico per i sopracitati monili (forgiati in resina trasparente) e print d’epoca (stravolti mediante una leggera distorsione, così da dare l’impressione di «cimeli trasportati nel futuro»), nonché per le calzature, storico atout della griffe, che evocano nella forma angolare dei tacchi a spillo e nella corda intrecciata il lessico ornamentale dei modelli ideati, decenni fa, dal fondatore. Un clash poderoso tra leggerezza d’antan e spigolosità metropolitana, che insieme, sostiene Davis, «producono contrasti così diretti da sembrare, in qualche modo, complementari».
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