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Il nostro corpo è un testo, da sempre. Paradossalmente, le presenze che ci abbigliano e che ci attrezzano vengono considerate prevalentemente nella loro valenza simbolica e semantica, ovvero nel loro ruolo metafunzionale. Tutto ciò che sta a ridosso della persona ha un valore narrativo, cioè racconta come essa si muove nella condizione dell’iper-scelta.
Ma il corpo della contemporaneità è un paesaggio complesso, non più una mappa univoca. Dopo il dress-code di derivazione borghese, abbiamo il “codice dissacrato”. Parallelamente ai principi codificati del vestire “normale”, troviamo filosofie vestimentarie del tutto trasgressive, destabilizzanti. Queste hanno avuto inizio con la Beat Generation (quando la rottura con il conformismo dava luogo a soluzioni dette “alternative”), mentre negli anni ’80, in pieno postmodernismo, erano considerate l’unica falange avanguardista del design. Oggi, nonostante la crisi macroeconomica, quell’iconografia “alterata” ha subìto delle semplici limature formali, utili a dare all’abito un maggiore respiro commerciale.
Tutto parte dall’idea della mostruosità (“freak”, in inglese, ha proprio quel significato, tutt’altro che spregiativo) e dall’affermazione dell’orrido e del fantastico, intesi come repertori di invenzioni estreme, inattese, squilibrate rispetto alla consuetudine. La moda approda così a soluzioni psichedeliche, recuperando il senso dello stupore, del coinvolgimento sensoriale: la vera “freak-ità” è ricavata da una nuova dimensione emozionale.
Riecheggia nella nostra mente il pensiero di Francesca Alfano Miglietti sulle trasformazioni identitarie: «Nella dimensione cyberpunk le diramazioni del flusso referenziale sono l’estremismo emozionale, la proliferazione simbolica, la violenza del senso. […] Il messaggio eversivo è intensità emozionale, è allargamento dell’area della coscienza, è creare tempeste psichiche, è […] l’eliminazione del senso comune, è la multidentità che non cerca sicurezze e riconoscibilità. […] La mutazione è la nuova rivoluzione, è il linguaggio che ha dissolto l’identità in una moltitudine di schegge in accordo o in contrasto dei vari “io” che possono convivere all’interno di uno stesso soggetto […] oltre il senso di omogeneità psichica e culturale». L’identità non si vuole immobilizzare attorno a un dispositivo “ideale” né adeguarsi a un modello, cioè a una razionalità progettuale univoca e incontrovertibile.
Oggi il lavoro – anzi, la ricerca – di designer come Gareth Pugh, Iris van Herpen e Rick Owens è eversiva, sconvolgente, tellurica, rivoluzionaria… minaccia le basi del codice vestimentario tradizionale, così come, tra gli anni ’70 e ’80, hanno fatto Vivenne Westwood, Comme des Garçons, Yohji Yamamoto e Jean Paul Gaultier. In verità non siamo certi che quegli approcci meritano il termine “avanguardia”, ma di sicuro hanno aperto nuovi orizzonti, anche quando ciascuno di quegli stilisti ripropone, collezione dopo collezione, un proprio cliché, più assimilabile alla pittura espressionista che non ai moduli razionalisti di Giorgio Armani o di Chanel.
Ciascuno di quei repertori si contamina con ambiti creativi che, a propria volta e pur diversissimi tra loro, esprimono anticonvenzionalità: la fiaba, il punk-rock, la biologia, l’immaginario gotico, la Body Art, eccetera. Ciò autorizza i designer a dilatare le proporzioni, ad amplificare i dettagli e a scardinare la nozione della “soglia”: tra dentro e fuori, tra maschile e femminile, tra forma e deformità.
Quell’indirizzo del fashion design agisce chiaramente in una condizione di acidità. Ma per quanto visionario possa apparire rispetto alla tradizione, esso contiene i geni dell’innovazione nel design dell’abito. Anche in questo campo, la variabile è rappresentata dalla tecnologia, che innesca nuovi modi di pensare l’abito e che genera nuovi linguaggi. La concezione e l’esecuzione del capo d’abbigliamento non possono prescindere dalla disponibilità dei nuovi materiali e delle nuove tecniche di lavorazione. Anche se questi ultimo pervadono un po’ tutto il settore, è nella moda “estrema” che tessuti metallizzati, siliconi, acrilico stampato in 3D e imbottiture imprevedibili, che rendono tridimensionale una normalissima superficie, trovano sublime espressione.