Tutto sta in quel “dys”. In quel prefisso che ci piace.
Perché disorienta, disturba il sistema moda inteso alla lettera, per sondarne
la dimensione disfunzionale, andando al di là di quella che può essere una
semplice collezione di capi e accessori, valicando il concetto del fashion come
prodotto per scopi commerciali, facendosi esibizione di moda che non mostra
l’abito. Dimostrazione di come la moda sia, al di là degli oggetti in cui
occasionalmente si materializza, “un instabile stato di sensibilità”.
Almeno è così che la vedono i curatori della kermesse
Dysfashional – Luca Marchetti ed Emanuele
Quinz – ed è così che nel 2007 arrivarono a concepirne il progetto germinale,
invitati dalla città di Lussemburgo, Capitale Europea della Cultura per
quell’anno, a presentare una mostra attorno alla moda. Ed ecco entrare in scena
i protagonisti dell’universo moda e la loro immaginazione, i loro immaginativi.
Stilisti e artisti con cui Marchetti e Quinz già avevano collaborato in
passato, quali Hussein Chalayan, Maison Martin Margiela,
Bless, Raf Simons e
Gaspard
Yurkievich.
Dopo l’allestimento in Lussemburgo, la replica a Losanna
nel 2008 e infine la doppia esposizione a Parigi e Berlino, organizzata a cavallo
tra il 2009 e il 2010. Un doppio momento: retrospettivo e, al tempo stesso,
foriero di nuovi contenuti. Un immaginifico contenitore in grado di accogliere
le esperienze fondative e fondamentali per le creazioni dei fashion designer, e
non le creazioni stesse:
una videoinstallazione di 23 monitor (
Repeat, 1995-2005) per illustrare il
lessico visivo dello stilista belga
Raf Simons, in un gioco di dicotomie che con
magnetismo paradossale vaga tra adolescenza ed età adulta, rabbia e
distrazione, bianco e nero, buio e luce.
Luci che si accendono sotto i coni di tessuto grezzo che
compongono l’installazione di
Antonio Marras: ricreazione di un enigmatico e
ancestrale paesaggio sardo, fitto ora di sottane (Le Orfanelle, 2006) ora di
tende nomadi, a seconda dell’interpretazione.
Suscettibile di più chiavi di lettura anche il contributo
di
Hussein Chalayan (
Anaesthetics, 2004) che, con la sua opera, fra sketch book e film, dimostra
nell’arco di undici capitoli, grazie alla metamorfosi di alcuni indumenti e oggetti
in legno convertibili, come la violenza sia camuffata dalle istituzioni,
attraverso ritualizzazioni, anestetizzazioni e codici di comportamento. Più
leggero, anche nel senso letterale del termine, il secondo contributo proposto
dal designer cipriota: sono quasi privi di peso i suoi
Airmail Dresses (2001), cartamodelli ricavati in
immacolate buste per la posta aerea, pronti per esser contaminati da un corpo,
così come da una penna, e poi spediti.
Dalla leggerezza all’impalpabilità. Quella dei profumi e
degli odori sondati dall’artista concettuale norvegese
Sissel Tolaas (
The In-Betweens, 2007) nella sua ricreazione
delle identità aromatiche di Parigi e Berlino, in un tentativo di confronto con
la realtà attraverso l’olfatto, che si pone in netta antitesi con quanto
solitamente avviene nell’industria della profumeria, protesa all’enfatizzazione
delle componenti metaforiche e immaginarie, più che di quelle reali.
Ancora la Maison
Martin Margiela rielabora una nuova versione del
progetto portato in Lussemburgo, dando vita a una ricreazione d’ambiente a
tutto tondo degna di un set cinematografico: protagonisti, in armonia con
l’ottica globale della manifestazione, non sono i prodotti, bensì la maison
stessa, q
ui intesa in particolare come sede, come headquarter decostruito e
riprodotto tramite l’uso di pannelli in legno, rivestiti con fotografie
d’interni a dimensioni reali, in un gioco d’illusioni ottiche e trompe l’œil
che perpetua la filosofia demistificatrice della casa di moda belga.
Tra le nuove produzioni, inserite ad hoc per l’edizione
2009/2010, l’architettura cubica costruita seguendo un’unica linea continua
firmata dal designer di calzature
Pierre Hardy in collaborazione con il
fotografo e artista
Damien Blottière, evocativa del tratto grafico e geometrico dello stesso
Hardy; le “capillari” e totemiche sculture – tra rappresentazione del sé e
hair-styling – nate dall’unione dei talenti creativi dell’artista
Justin
Morin e del
designer
Billie Mertens; una testimonianza dello show
Transhumance già presentato da Gaspard
Yurkievich al Pompidou lo scorso aprile, con il supporto sonoro delle CocoRosie
e grazie all’aiuto della set-designer
Nadia Lauro.
E poi il provocatorio lavoro proposto dal fashion designer
Berhard Willhelm grazie anche all’aiuto di
Christophe Hamaide-Pierson (degli Avaf, ovvero
Assume
Vivid Astro Focus);
la struttura riflettente in vetro e metallo che ben veicola lo stile delle
collezioni di
Kostas Murkudis, l’opera interattiva di
Michael Sontag che risveglia i sensi
dell’osservatore, interrogandolo sulla vanità delle immagini. Infine, una
selezione dei magazine rivisitati dall’artista
Marc Turlan per provare a svelare significati
nascosti nella densa massa dell’immaginario di moda.
Come nota a piè di pagina – postilla di
Dysfashional, ma al tempo stesso suo cuore
concettuale – si pone lo speciale progetto performativo P.S.:
Peep show e
Post-Scriptum per sottolineare la volontà
d’indagare, grazie al supporto del duo I could never be a dancer e del set
designer
Mathieu Marcier, un aspetto che spesso rimane ai margini del fashion: quello del
movimento suggerito dalla forma di un abito.