Quando è cominciato tutto?
Un inizio è difficile rintracciarlo, c’è un coinvolgimento nelle cose che mi circondano. Soprattutto curiosità per il congegno, la macchina, l’oggetto, il movimento e quindi nel tempo i laboratori e il fascino dell’ingranaggio. Il gioco del tessuto, il vedere cosa potesse venir fuori dalla macchina.
Il fascino dell’ingranaggio, il movimento, la ricerca. Parole chiave e modus vivendi?
Colori, disegni, maglie mi hanno sempre interessato, e tuttora me ne occupo con grande passione e mestiere. L’aspetto estetico del vestito diventa per me secondario rispetto al contenuto del materiale. La relatività del secondario l’ho assimilata dai miei genitori che primi introdussero il concetto dello sportswear tra ‘50 e ’60 (prima era solo relegato all’attività ginnica). Negli anni ‘70 loro applicano una rivoluzione dei materiali come il jersey, ovvero la felpa.
Ti piace questo stile. Come lo declini nel tuo lavoro?
Io amo dedicarmi a questo genere di abbigliamento, per certi aspetti lontano dalla moda. Uno stile dai tagli puliti, semplice nelle strutture, efficace nell’effetto lasciato al tessuto, al colore, al disegno. Un disegno forte, dominante, riconoscibile, ecco che le forme tornano ad essere secondarie. Oggi io disegno la collezione uomo e la Missoni Sport. L’uomo è quello classico con una grande attenzione alla ricerca e all’avanguardia sia nei materiali che nei tagli; una ricerca nei dettagli poiché i vestiti sono definiti. Per Missoni Sport invece si applica un altro tipo di filosofia del vestire, quella della quotidianità da vivere con i nostri materiali.
Il mio primo ricordo di Missoni risale alla cerimonia di apertura di Italia ‘90, quando ad alcuni stilisti fu chiesto di rappresentare i continenti. A Missoni toccò l’Africa.
Quell’episodio sorprese anche me. Mia mamma lo viveva come un fatto di far indossare le tele e i disegni di mio papà in una situazione libera dai condizionamenti di un prodotto ormai consolidato da quaranta anni di attività. Una tematica libera dall’autoreferezialità:design puro, libero.
Ho riletto quell’episodio come un elemento forte del passaggio dal passato al presente, dei quali però sempre loro, i miei genitori, sono stati autori.
Nella mostra Missonologia, a Milano, l’Africa era per me l’icona del contemporaneo, l’assoluto di un tratto, di un segno, della grafica. Il Multicolore in quadricromia pura.
E nella mostra che stai organizzando ora sul caleidoscopio Missoni?
I disegni sull’Africa non ci saranno, ci saranno i patchwork e gli arazzi degl’inizi degli anni ‘70, con un passaggio a dei golfi colorati presentati nel ‘71 in una collezione a Cortina, e poi si ritorna al presente con il design che oggi ci contraddistingue applicato all’arredamento, alla casa, alle grandi superfici, agli ambienti.
La mostra sarà ai Musei Provinciali di Gorizia tra gennaio ed aprile. Sarà un modo di proporre un metodo di lavoro. Una mostra sul design di Missoni, dove gli abiti sono delle citazioni, i disegni partono dagli abiti e finiscono sugli oggetti.
Che rapporto hai con l’arte?
Mi è sempre piaciuto provare, e mi sono cercato delle occasioni. Mia moglie è un’artista. Grazie a lei ho conosciuto la danza contemporanea. Mi occupo di costumi e ho disegnato quelli dell’Aeros. Il mio rapporto con il mondo dell’arte è anche legato a dei ritratti alla Luna. Il cielo per me è un riferimento costante, vivo nel buio se posso. Io mi sono avvicinato a queste cose nelle estati che trascorrevo in Dalmazia con i miei genitori, per cui si viveva in queste isolette, calava il sole ed era davvero buio.
Ti occupi anche dei negozi Missoni. La messa in scena del prodotto è di vitale importanza. Che rapporto ha la maison con l’architettura?
Per quanto riguarda gli architetti ci sono persone che sanno benissimo qual è il loro ruolo, tutto sta nel rispetto delle parti. Se l’architetto vuole disegnare il suo negozio, si faccia il suo. Noi ci siamo rivolti a Matteo Thun, un professionista.
Altre maison hanno la loro fondazione, il loro museo d’impresa. E Missoni?
L’idea di fare qualcosa in questa direzione spesso può sembrare mettere la parola fine.Da anni mi occupo del nostro archivio per renderlo fruibile e vivo. Ogni mostra che faccio mi permette di catalogare il materiale in formati utilizzabili. Si tratta una nostalgia che ancora non nasce, o comunque l’idea di un museo non dovrebbe partire dall’azienda. L’ambizione, autocitarsi sarebbe decisamente complesso.
Lo scopo dovrebbe essere didattico e culturale. Altrimenti preferiamo la dimensione dell’evento.
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