È stata un’esperienza importante, a prescindere dal risultato. Per formazione e per modalità operative sono piuttosto lontana dagli ambienti della moda. È per questo, per misurarmi con una realtà che conosco poco e alla quale tuttavia appartengo, che ho scelto di partecipare a “Who’s on Next”. L’incontro con gli altri designer e con la giuria, il lavoro sulla collezione, trunk-show e sfilata, sono stati gli elementi salienti, ciò che resta dell’esperienza.
Una storica d’arte contemporanea che diventa stilista. In che modo la tua formazione influenza il tuo approccio all’abito e alla moda?
Gli anni di studio sono parte del mio bagaglio culturale, tanto quanto le altre esperienze fatte. Sono materia acquisita e in qualche modo dimenticata. Nella mia attività cerco di creare forme, piccole strutture, sia nella texture, sia nella costruzione. Credo che la moda sia un’arte applicata e, come tale, specchio della realtà contemporanea. Quanto questo abbia a che fare con la mia formazione, non so.
Un riferimento artistico sopra tutti gli altri?
Non saprei dire, poiché sono potenzialmente tanti. Mi vengono in mente, a titolo di visione, alcune installazioni di Louise Bourgeois, mentre un amico mi ha da poco fatto riscoprire certe pesantezze di Kounellis, con cui a suo avviso ho qualche affinità. Ma è peccato di presunzione pensare a riferimenti artistici.
Hai dichiarato di voler creare un guardaroba “in sintonia con quanto vivono le donne che ti circondano”. Come sono queste donne? Cosa fanno? Che valore attribuiscono alla moda? Sembra che prediligano un’esistenza in bianco e nero…
Il bianco e il nero sono la base, la materia prima che rivela la forma. Sono elementi astratti e fortemente simbolici: un linguaggio primario, un sorta di chiaro-scuro capace d’esprimere tensione e dinamismo. Se un’esistenza in bianco e nero è sinonimo di rigore e di essenzialità, allora mi auguro possa essere un valore condivisibile. Le donne che mi circondano s’innamorano di certi capi, ma possono sopravvivere senza. E, comunque, lungi da me ingabbiare la femminilità nel grigiore: nelle collezioni utilizzo sempre un colore. Certo non è nelle mie corde cercare quello di stagione.
Talvolta sì, molto spesso no. Trovo generalmente di buon livello la rappresentazione proposta dall’editoria più importante: mi piace l’immagine e apprezzo il lavoro di stylist e fotografi. Meno edificanti mi pare siano le pagine pubblicitarie, che offrono immagini più stereotipate. Non credo di avere un doppio criterio di valutazione -come stilista e come donna- anche se forse è vero che quanto mi stupisce e affascina è spesso lontano dal mio quotidiano.
Quali sono le testate che prediligi? Quelle che ritieni più innovative, ricettive verso il nuovo?
La mia rivista preferita è senz’altro “Bloom”.
Che ne pensi della querelle originatasi in seguito alla campagna “shock” di Oliviero Toscani?
Se non sbaglio la campagna ha avuto il patrocinio del Ministero della Sanità e questo dovrebbe fornire un elemento valido alla sua legittimazione. Altro punto è forse capire in che misura messaggi impegnati possano e debbano essere veicolati da realtà commerciali: mi piacerebbe che le istituzioni di per sé sapessero comunicare con lo stesso vigore temi importanti per la collettività, senza bisogno di sponsorizzazioni.
Brain storming sulla tua collezione a/i 07/08.
È fatta principalmente di velluto, di tweed e di twill giocati su una gamma di falsi neri (marrone scuro, blu scuro), di mohair infeltrito a righe e di lana elasticizzata, a coste orizzontali. Nell’insieme restituisce un’immagine femminile, con forti tratti maschili. I volumi sono esasperati per la parte inferiore, smilzi per la superiore.
Cosa ci aspetta invece per la prossima p/e?
La primavera/estate ha due anime: una basica, una preziosa. Mi sono divertita ad accostare, liberamente, materiali diversi: il lino, la seta, il cotone-cashmere, la viscosa-mais. Affianco al plissé (etereo o architetturale) i grafismi di una stampa trompe-l’oeil e le trasparenze della maglieria. Il bianco-e-nero è spezzato da una palette di verdi, dal militare all’oliva, che, nell’insieme, vuole rendere l’idea della sovrapposizione caotica e armoniosa della natura.
Ci sono alcuni capi a cui sono più affezionata, per lo più sono quelli “d’ingegno”, nati dall’idea di un meccanismo. E gli accessori, divertissement su materiali inconsueti.
La collezione (o un capo particolare) di un altro stilista che avresti voluto firmare tu.
Per fortuna tanti, ogni stagione.
Hai partecipato a numerose manifestazioni che hanno visto trionfare la creatività nel senso più ampio del termine, dai festival di riciclaggio (Recycling Fest) fino a quelli di musica elettronica (Kibernetica.it). Quale ricordi con maggior piacere e perché?
Non una in particolare. Quello che ricordo è il piacere, sempre, della creazione collettiva, la magia della sinergia, soprattutto in ambiti “off”.
Nella grafica del tuo marchio il tuo nome è parzialmente cancellato. Qual è la ragione di questa apparente scelta di understatement?
Spero non sia apparente, spero che quello che faccio abbia maggior riconoscimento del mio nome. Volevo solo dare l’indicazione di una provenienza, certificare in qualche modo l’origine. Del resto lo “scarabocchio” ha a che fare con il gesto impulsivo, non ragionato: e, oltre al fatto d’essere una grafomane, il margine dell’imprevedibile mi ha sempre affascinato.
a cura di marzia fossati
[exibart]
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