Milano è frizzante, più del solito, e dai taxi sale e scende la carovana di fashionisti, addetti ai lavori e celebrities che batte in processione uno degli itinerari più noti della storia del costume occidentale. New York, Londra, Milano e Parigi. Siamo in pieno fashion month. Come da tradizione, la “grande mela” ha inaugurato lo tsunami di eventi, presentazioni e sfilate che si sovrapporranno per le prossime settimane in questa e nelle altre canoniche capitali della moda.
La New York Fashion Week ha avuto i riflettori puntati dal 7 al 13 settembre. Imbastita e seguita dal CFDA, il Council of Fashion Designers of America capitanato dal designer Tom Ford, è ancora in lotta per sopravvivere. Non è un mistero, infatti, che da diverse stagioni la sua rilevanza all’interno del calendario abbia subito un calo piuttosto drastico. Un problema non da poco, se si considera l’elenco sempre più lungo di fashion week che negli anni si sono aggiunte al suddetto calendario in (e rappresentative di) tutto il mondo.
Ciò nonostante, anche per questa stagione gli occhi degli addetti ai lavori e degli appassionati erano ben puntati sulla città. Il motivo principale? Il debutto di Peter Do come direttore creativo dello storico marchio Helmut Lang.
Helmut Lang è il designer austriaco noto per l’enorme influenza che ha avuto sulla moda contemporanea, lanciando quel minimalismo sovversivo che è ha scolpito gli anni ’90 e i primi 2000. Altissime quindi le aspettative per questa prima collezione, anche per il fatto che Do è considerato la promessa del fashion system americano. Il designer vietnamita si è formato nell’officina di Phoebe Philo, ammiratrice del lavoro di Helmut Lang, distinguendosi nel panorama contemporaneo per l’estetica minimale caratterizzata dalla purezza delle linee e da costruzioni precise e innovative.
Certo è che, affinità formali a parte, rilanciare un brand così fondamentale per la storia della moda come è stato quello di Lang è compito arduo. Soprattutto se si considera che le caratteristiche del marchio erano intrinsecamente legate alla visione e alla personalità del proprio fondatore, oltre che al contesto ben preciso e complesso degli anni ’90.
E così all’uscita dei look le opinioni si sono polarizzate: qualcuno ha urlato allo sfacelo del marchio e qualcun altro alla sua rinascita. I due punti di vista ben si riassumono nei giudizi delle critiche di moda Cathy Horyn (The Cut) e Rachel Tashjian (The Washington Post). Per la prima, questa collezione di lancio ha chiarito l’impossibilità di far resuscitare un progetto così radicato nel contesto in cui era si era guadagnato il successo. Tashjian invece ha predetto l’acquisto sfrenato di gran parte dei capi, definendoli desiderabili e contemporanei e decretando quindi il successo della collezione.
Collettivamente apprezzata la collaborazione di Do con il celebre poeta vietnamita (e amico) Ocean Vuong, i cui versi scorrevano lungo la passerella e su alcuni look.
Per quanto riguarda i brand più noti e stabili del calendario newyorkese, c’è da dire che non si sono distinti per alcun motivo particolare. Senza infamia e senza lode.
Sono i brand emergenti o, comunque, meno noti in calendario, che fanno prendere appunti. Fucine frementi di idee creative, di opinioni (anche politiche) sul mondo e di energia sovversiva.
Una delle collezioni più acclamate e con un seguito entusiasta è stata quella di Who Decides War, caratterizzata da costruzioni intriganti e precise realizzate da Ev Bravado e Téla D’Amore. Tuttavia, è importante notare che durante lo show si è verificato un sovraffollamento dovuto alla location, per il quale Téla D’Amore ha dovuto scusarsi. Entrambi sono stati finalisti per il premio CFDA/Vogue di quest’anno e sono protetti da Virgil Abloh. Il marchio è simboleggiato da un vetro macchiato. Ciò che ha reso unica questa collezione è stata l’abilità sartoriale, con alcune creazioni realizzate in collaborazione con il padre di Bravado. Quest’ultimo ha utilizzato lucchetti al posto dei tradizionali gemelli o bottoni, aggiungendo un tocco distintivo. Con questa collezione, Bravado ha voluto omaggiare suo padre, che insieme allo zio gestiva un negozio di sartoria chiamato “Alteration Consultants”. Ciò ha portato a una decostruzione sartoriale che è un’estensione delle tipiche tecniche distruttive associate al suo stile distintivo.
Willy Chavarria ha presentato la sua collezione nell’iconico Woolworth Building a New York City, un grattacielo di stile neogotico risalente al 1913, che è ancora oggi un simbolo della città. Il designer ha dichiarato che voleva evitare il concetto di “lusso silenzioso” a tutti i costi, enfatizzando così la sua ricerca di un approccio più audace e provocatorio alla moda e la sua progressione in controtendenza rispetto gli interessi più commerciali del settore (i trend).
Willy Chavarria è noto per il suo contributo nel campo dello streetwear e il suo impegno nel trattare questioni di genere e identità attraverso le sue collezioni. Originario di Los Angeles, California, Chavarria ha radici messicane che hanno profondamente influenzato il suo lavoro e la sua prospettiva creativa. Ciò che rende distintive le sue collezioni è l’attenzione particolare all’abbigliamento senza genere. Le sue creazioni sfidano le tradizionali norme sulla moda legate al genere, promuovendo invece l’inclusione e la diversità.
Ultimo spotlight: la lotta nel fango delle modelle di Elena Velez. Con lo show per la SS24 la designer ha fatto allestire una pozza di fango a Brooklyn per meglio illustrare un manifesto didattico sulle “anti-eroine” e la necessità di «Resistere a un paradigma culturale monolitico». Velez si è distinta nel mondo della moda per audacia e una visione unica. Con sede a Brooklyn, ha guadagnato notorietà per la sua abilità nel creare capi che vanno ben oltre il concetto tradizionale di abbigliamento. Il suo lavoro riflette una profonda aspirazione a trasformare la moda in uno strumento di cambiamento sociale e di espressione di ideali più ampi. Il messaggio della collezione e della performance sono stati trasmessi chiaramente secondo Vanessa Friedman, che specifica: «Il punto di Ms. Velez è stato reso in modo efficace da un singolo accessorio: una scarpa con tacco a spillo. Il tacco, infilato nella suola di una Nike (Nike ha sponsorizzato lo spettacolo), costringeva la donna che la indossava a controllare ogni passo che faceva, gettando il suo avanzamento nella paura».
Ancora, Cathy Horyn dice di lei: «Sebbene il lavoro di Velez debba ovviamente molto alle tecniche di destrutturazione di Margiela, Vivienne Westwood e altri designer più anziani, credo che sia motivata da un’idea più grande. […] Velez si trova in una posizione difficile, e sospetto che lo sappia. Deve creare più stili di abbigliamento che si vendano, se solo per sostenere la sua visione, e questa donna ha una visione che si è delineata rapidamente nelle ultime tre stagioni».
Parlare di London Fashion “Week” risulta un poco dissonante ormai, dal momento che alla capitale inglese sono rimasti solamente cinque giorni in cui presentare i propri marchi al resto del mondo. Organizzata dal British Fashion Council, la settimana della moda londinese è tendenzialmente intesa come la piattaforma creativa DOC per presentare e lanciare nuove promesse del fashion system. D’altronde è qui che ha sede il principale istituto scolastico dell’ambito moda, la Central Saint Martins.
A dispetto delle conversazioni sul “nuovo” però, l’evento più atteso della settimana era la seconda collezione di Daniel Lee per Burberry, il brand più storico e più tradizionalmente londinese.
«Questa è una città composta principalmente da quartieri», sostiene il designer, e questo spirito di community è ciò che ha cercato di veicolare nello show. Gli ospiti infatti sono stati radunati sotto un tendone in Highbury Fields: «Ho pensato che fosse bello portare le persone in luoghi in cui non vanno necessariamente, al di fuori dei luoghi turistici ovvi», ha detto Lee. La sensazione di freschezza tipica dello stare all’aria aperta e la nitidezza di intenti sono le caratteristiche principali della collezione SS24 del nuovo Burberry. Silhouette snelle e linee pulite, semplificate rispetto alla scorsa collezione e forse più in tendenza “quiet luxury”, in gran voga. Niente loghi quindi, niente stampe o manovre sartoriali massimaliste. Il tentativo di ristabilire dei codici riconoscibili per il marchio è stato esplicitato con l’utilizzo di scudi, catene e altri rimandi al vecchio logo del cavaliere Burberry Prorsum a cavallo.
Altro show sempre molto atteso è quello di J. W. Anderson che, con l’omonimo brand, sembra sempre più indirizzato al mondo dell’arte rispetto a quello (se non altro commerciale) della moda.
Stagione dopo stagione il marchio si è distinto per capi e accessori che con la pratica del vestirsi hanno poco a che fare, ma che sicuramente spingono a riflettere, immaginare o semplicemente sorridere (vedi la Pigeon Clutch). Per la Spring 2024, sono scese in passerella felpe, bermuda, e altri capi realizzati in plastilina. Un’illusione concettuale che rimanda evidentemente a un più ampio ragionamento sull’infanzia e la giovinezza, con la spensieratezza e il cuor leggero che le contraddistingue. I capi sono stati modellati in modo da rappresentarne il destino: sono abiti da usare, abusare, sfruttare, utilizzare come dei giochi.
Tra i nomi più recenti e sovversivi del calendario londinese c’è sicuramente il brand Mowalola, della designer Mowalola Ogunlesi. Di origini nigeriane ma stabile a Londra, la designer ha impressionato il pubblico con una collezione che pare ispirata al brivido di vivere al massimo, pericolosamente. I volti apparsi sulla passerella erano truccati in modo da apparire tumefatti, come quelli di chi ha avuto un incidente stradale. E la reference era proprio quella: il film Crash di David Cronenberg, del 1996. Così la feticizzazione del dolore e la vita di strada diventano i pilastri della SS24 di Ogunlesi, dando vita a una collezione un po’ destabilizzante, molto sensuale e dichiaratamente provocatoria.
Gli altri nomi preferiti del calendario sono senza dubbio quelli di Chopova Lowena, Molly Goddard, Erdem e Simone Rocha. Quest’ultima poi, flash news, prenderà le redini della direzione creativa di Jean Paul Gautier per la prossima collezione couture.
Ma facciamo un piccolo focus sul duo che sta dietro il nuovo brand-pupillo del panorama inglese Chopova Lowena: Emma Chopova e Laura Lowena-Irons. A un anno da quel debutto in passerella che molti hanno definito il punto culminante della stagione primavera 2023 di Londra, le designer con il gusto per il folk hanno scelto di sfilare una sola volta l’anno. Questo per riuscire a sopravvivere, in quanto brand emergente e indipendente, alla drammatica situazione economica che caratterizza l’isola britannica dopo la Brexit. In un periodo storico in cui molti nomi noti della moda hanno dovuto ritirarsi dal calendario, a causa dei costi troppo elevati e necessari all’organizzazione di un fashion show, Chopova Lowena combatte per restare a galla. In questa direzioni quindi la scelta di proseguire su un percorso personale e identificativo, come esemplifica la decisione dietro il casting. La line up era infatti composta da amici, parenti, fidanzati e conoscenti delle due designer. Un aspetto che parla chiaro dei valori e degli sforzi che tengono insieme questo brand, che è così tanto applaudito quanto economicamente poco sostenuto.
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