Grandi aspettative per i quattro show-eventi tra i più attesi alla Milano Fashion Week, che ha visto l’anniversario di Moschino e le nuove direzioni creative di Gucci, Tom Ford e Bally. Se per questi quattro appuntamenti erano davvero alte le aspettative, vediamo in sintesi quello che è successo.
Maison in cerca del suo autore (il direttore creativo verrà comunicato a breve) Moschino ha festeggiato i suoi 40 anni con un omaggio al fondatore Franco: una sfilata come vera e propria performance teatrale curata da quattro grandi stylist di fama internazionale – Carlyne Cerf de Dudzeele, Katie Grand, Gabriella Karefa-Johnson e Lucia Liu – chiamate a reinterpretare le iconiche creazioni dell’enfant terrible della moda italiana, scomparso prematuramente nel 1994. Dopo la guida – a tratti discutibile – che per un decennio ha visto Jeremy Scott alla guida del brand, Moschino a breve dovrebbe annunciare la sua nuova scelta.
A Milano ha intanto presentato 40 Years of Love per Moschino, uno show dove ogni stylist ha ripreso e interpretato dei pezzi iconici e dei concetti cari alla visione di Franco. Il risultato è stato un vero patchwork di stili e proposte, unitamente al sense of humour presente su tutti i look, anche tramite nuovi slogan, come quello ideato da Katie Grand “Loud Luxury” o “Protect me from the fashion system”.
In linea con l’impegno di Franco Moschino nella lotta contro l’AIDS è stato il finale con le modelle a piedi nudi sulla passerella in jeans e t-shirt in edizione limitata, il cui ricavato sarà devoluto interamente alla Elton John AIDS Foundation. Un brand che deve affrontare la più grande sfida di come traghettarsi nel futuro senza dimenticare il suo passato. Un primo atto che forse immaginavamo più pirotecnico, ma che ha fatto ricordare la genialità del suo fondatore.
È stato lo show più atteso, chiacchierato e che ha diviso il mondo degli addetti ai lavori. È Gucci Ancora, il titolo con cui ha debuttato Sabato di Sarno, che per l’occasione ha ideato anche un nuovo colore rosso, che è diventato virale come la sua dichiarazione di «Voler far innamorare di Gucci». Come lui stesso ha dichiarato: «Ancora è un termine che si usa quando un desiderio non è ancora finito, che si tratti di un bacio, di un abbraccio o di fare l’amore. È come possedere qualcosa e volerne di più…».
Altissime le aspettative per questo lancio con un investimento di comunicazione milionario, ma poi lo show si è rivelato privo di un immaginario e di un messaggio altrettanto forte. Di sicuro sono passati in passerella «Oggetti attraenti da collezionare per essere indossati nella vita di tutti i giorni», come ha scritto De Sarno. Abiti di fattura impeccabile, mini dress ricamati, felpe logate e accessori destinati a diventare must have, come la Jackie rivestita di cristalli e i mocassini con il morsetto su platform altissime. Tutti look e prodotti desirabili e come si direbbe “commerciali” ma questo non basta a farci innamorare del nuovo Gucci.
Serve forse ulteriore tempo per il nuovo direttore creativo per trovare il coraggio di rompere alcuni schemi e aggiungere un tocco ancora più personale. E in questo la comunicazione a tappeto non ha giovato, sarebbe stato meglio partire in modo meno urlato. Aspettiamo le prossime stagioni per dare tempo al nuovo direttore creativo di affinare la sua visione, considerando che entrare in un’azienda così strutturata comporta grande complessità.
Come ha brillantemente scritto Lauren Sherman: «Sono sicura che ormai avrai sentito dire che Tom Ford era più Gucci di quanto Gucci fosse Gucci, il che significa che la prima collezione di Peter Hawkings come direttore creativo del marchio sembrava una copia carbone dei più grandi successi di Ford dal suo storico revival degli anni ’90 della casa italiana». Un’analisi a mio avviso corretta per questo altro atteso debutto di un brand che adesso fa parte del gruppo Estée Lauder, già produttore di profumi e beauty a nome del marchio che, avendo acquisito anche la moda, ha affidato a Zegna la produzione e la distribuzione per 20 anni.
Per questo motivo Tom Ford è arrivato a sfilare alla Milano Fashion Week. Lo show, dai look all’immaginario, ha sicuramente reso omaggio al suo fondatore con l’obiettivo di rendere sexy il daywear, tra abiti, completi, tailleur pantaloni e pelle stampata cocco, tacchi a spillo e mocassini lucidi. Un’estetica seducente dove maschile e femminile sono un continuum, tra i diversi riferimenti creativi cari a Tom Ford.
Purtroppo è mancata forse quel senso di glamour e opulenza che hanno reso il brand amato da molte celebrities e quel twist di originale da parte di Hawkings, ex assistente di Ford. Una prima prova che ci ha fatto ricordare un glorioso passato e in attesa di capirne la direzione futura.
L’heritage al centro della riflessione Simone Bellotti, nuovo Design Director di Bally, con uno show ad alto tasso celebrities nei suggestivi giardini del Chiostro di San Simpliciano a Milano. Un cambio di rotta che ha sicuramente giovato al brand, fondato nel 1851 da Carl Franz Bally come fabbrica di nastri a conduzione familiare a Schönenwerd, Svizzera, per poi diventare un marchio di calzature costruite artigianalmente alle quali successivamente è stata poi implementata la parte di ready to wear.
Basandosi sui 170 anni di tradizione calzaturiera di BALLY, si assiste al ritorno di modelli d’archivio come nuovi capisaldi di stile. La rivisitazione e il perfezionamento di Glendale dalla fibbia piatta (Bally c. 1923) con tomaia a punta, della Scribe Oxford stringata (Bally c. 1951) con punta brunita e della Ballyrina flat (Bally c. 1940) con dettagli borchiati, dove standard della formalità classica sono ora intrisi di rigore contemporaneo. Le cinture talismano lucidate e i campanelli in pelle lavorata rendono omaggio alle usanze svizzere. I bagagli e le borse mostrano il dualismo in gioco: valigette strutturate e portamonete in pelle di vitello lucida e catene d’oro si affiancano a messenger in tela morbida e borse da viaggio rifinite con il nastro BALLY e lo stemma araldico del marchio.
Bellotti ha lavorato su un interessante concept richiamando a quel cenacolo di irregolari bohèmiens che era il Monte Verità, un rifugio utopico di intellettuali alternativi e anime creative che si stabilirono ad Ascona, in Svizzera, all’inizio del XX secolo. Il loro approccio libertario, che rifiutava il peso di un’esistenza urbana per una comunione olistica con la natura, fu una rivoluzione culturale che influenzò letteratura, danza, pittura e performance. E sicuramente si evince un approccio più libero alla moda, anche se a livello di silhouette tutto resta molto timeless classic ed essenziale. Interessante e più giocoso l’uso dei colori come il rosso svizzero, il cobalto ed il “chartreuse” che si alternano a una palette di toni neutri tenui – colori che evocano sia l’uniformità urbana sia le morbide sfumature della flora alpina.
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