Categorie: Moda

Max Mara, tra Reggio Emilia e New York

di - 24 Luglio 2020

È sempre più labile il confine tra arte e moda. Se l’una prevalga sull’altra o se siano interdipendenti non è dato sapere. Potrebbe semplicemente trattarsi di connubio, nel caso dell’haute couture, che rappresenta di fatto una fusione tra le due ma, secondo l’opinione comune, essere alla moda oggi significa acquistare vestiti che hanno la durata di un mese. La qualità che dovrebbe essere un elemento dominante dell’abito e che indiscutibilmente è il fondamento di un capo di haute couture è sempre meno considerata tra i più. La storia della moda, legata all’arte quanto ai tessuti, ha ormai un ruolo elitario, indipendente, appartenente ai millennials più appassionati.
L’arte è un contenitore da cui gli stilisti attingono per dare vita a nuove idee.

Max Mara è un’azienda che ha unito arte, architettura moda e marketing. Fondata da Achille Maramotti nel 1951 a Reggio Emilia, è conosciuta per i tailleur, i cappotti, gli abiti e per le collaborazioni con disegnatori del calibro di Karl Lagerfeld e Anne Marie-Beretta.
Come tutte le realtà a conduzione familiare, la storia ha radici profonde che vede nella bisnonna del fondatore, Marina Rinaldi (a cui è dedicata una collezione) e nella madre l’inizio (o quasi) di tutto. La signora Rinaldi infatti possedeva un atelier nel centro di Reggio Emilia mentre la madre era una sarta che gestiva una scuola di taglio e cucito. Il Dottor Maramotti, dopo la laurea in giurisprudenza, assunse due sarte che si erano formate proprio nella scuola di cucito della madre e iniziò a costruire il Gruppo Max Mara che conosciamo. Tra le curiosità inerenti al fondatore non passa inosservato l’amore per l’arte, così grande che è riuscito a tramandarlo e definitivamente a tradurlo in principale valore dell’azienda. L’edificio in cui oggi è custodita la collezione Maramotti di arte contemporanea, era negli anni Cinquanta lo stabilimento in cui venivano cuciti i vestiti. Venne progettato dagli architetti Antonio Pastorini ed Eugenio Salvarani e poi riconvertito negli anni 2000 dall’architetto Andrew Hapgood che rese l’edificio atto a contenere le opere d’arte. È interessante osservare come l’edificio architettonico sia lo specchio dell’evoluzione a cui assistiamo oggi: l’arte è destinata a prevalere e la moda ne è subordinata. Basti pensare che la collezione Resort 2019 si è svolta proprio in quell’edificio e ha ripercorso la storia del brand compreso il cappotto iconico 101801 disegnato dalla stilista francese Anne-Marie Beretta.

Ivan D’Onofrio, Whitney Bag, courtesy Max Mara

Florine Stettheimer fu una pittrice, scenografa teatrale e poetessa nata nella seconda metà dell’Ottocento da una famiglia agiata e matriarcale. Frequentò i corsi di pittura e disegno dal vero all’Art Student’s League, una delle prime scuole d’arte di New York che permetteva anche alle donne di accedere a questo genere di programmi. Un artista è tale se realizza delle opere seguendo le proprie inclinazioni creative senza seguire i dettami del mercato. È il caso di Florine che, secondo quanto scritto nei suoi diari, era completamente disinteressata al mercato dell’arte. Era molto ricca, non aveva bisogno di denaro. Perfino dopo la sua morte avrebbe preferito che le sue opere venissero distrutte e, come scrive Sarah Cascone su Artnet, nel suo testamento scrisse: «Permettere alle persone di avere i tuoi quadri è come lasciarli indossare i tuoi vestiti».
In che modo le due storie si intersecano?
Florine era una fervente femminista che si esprimeva attraverso i quadri, le poesie, le scenografie teatrali. Max Mara ha sempre parlato alle donne attraverso gli abiti.
In un’intervista per Fashion Network, Ian Griffiths, attuale direttore creativo del marchio emiliano, ha confermato: «Max Mara è per le donne. Dato quante cose hanno gli uomini, Max Mara è l’unica cosa che gli uomini devono prendere in prestito dalle donne».

Cinque anni fa è stata realizzata la Whitney Bag firmata Max Mara in occasione dell’opening della nuova sede del Whitney Museum of American Art di New York, disegnata dall’archistar Renzo Piano. La borsa, realizzata in pelle morbida, presenta dei graffi che richiamano esplicitamente la facciata del museo. In occasione del quinto anniversario l’interno della borsa è stato foderato con stampe ispirate al dipinto “Sun” di Florine risalente al 1931 ed è eventualmente disponibile in più varianti colore.
Esiste evidentemente una corrispondenza tra Reggio Emilia e New York. Un ponte che collega l’Italia e l’America, la Collezione Maramotti aperta alle tendenze artistiche del momento (e non solo) e il Whitney Museum che ha sempre supportato gli artisti emergenti. Max Mara ha inserito dentro la borsa tutto ciò di cui si ha bisogno in questo momento storico: la tutela della bellezza.

Whitney Bags, courtesy Max Mara

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Tag: Achille Maramotti Andrew Hapgood Anne Marie-Beretta Antonio Pastorini Eugenio Salvarani Florine Stettheimer Ian Griffiths Karl Lagerfeld Marina Rinaldi Max Mara Renzo Piano Sarah Cascone Whitney Bag

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