Alle spalle di un vestito firmato da Fausto Puglisi c’è il Tiepolo; poi Gucci accanto alla croce processionale di Raffaello; Balenciaga accanto a Tintoretto e Palma il Vecchio; Versace fa il paio a Canaletto con due abiti iconici realizzati in metal mesh (che oggi potrete trovare in vendita anche su alcune piattaforme di e-commerce a prezzi che partono dai 40mila euro), ripresi anche in omaggio al grande stilista dalla sorella Donatella; Dior con “Are clothes modern?”, riflessione firmata da Maria Grazia Chiuri, accanto alla Vergine Lettrice attribuita ad Antonello da Messina; Prada, con la sua passione per le gonne, nello studiolo dantesco.
Il tutto allestito in una “cornice temporanea”, come dimostrano gli iconici e semplicissimi display espositivi firmati da Altofragile. Siamo al Museo Poldi Pezzoli di Milano, dove in occasione della Fashion Week (e fino al prossimo 4 maggio) potrete scoprire “Memos”, ovvero “A proposito della moda in questo millennio”.
Curata da Maria Luisa Frisa con la collaborazione di Judith Clark e Stefano Tonchi, e realizzata dalla Camera Nazionale della Moda Italiana, “Memos” nasce – per dirlo con le parole di Frisa «Da due spinte molto forti: la prima per riaffermare il valore della moda italiana; la seconda per capire quali valori permangono tra scientificità e poetica, seguendo le Lezioni Americane di Italo Calvino, un autore fortemente tornato di moda».
La mostra – e questo è il punto più affascinante – parte dalla rievocazione dell’esposizione storica quanto fondamentale per la storia del costume “1922-1943 Vent’Anni di Moda Italiana”, curato da Grazietta Buttazzi, che si tenne proprio al Poldi Pezzoli nel 1981. Una scelta che era apparsa azzardata per l’epoca, sia per il tema caldo della moda durante il ventennio, sia perché il Poldi – museo “salotto buono” di Milano – sembrava non essere lo spazio più idoneo per un allestimento dedicato al fashion.
«E invece il Poldi Pezzoli è un museo che desidera riflettere anche sulla sua stessa funzione, e che in questo caso vuole condividere con il pubblico quello che la moda ha da dire, e dire alla moda di restituirci le proprie radici con l’arte» è l’energico messaggio che la direttrice Annalisa Zanni ha lanciato durante la presentazione di “Memos”.
La moda, insomma, chiamata in ballo negli stessi spazi 40 anni dopo per restituire l’esperienza di un museo che si vuole luogo della polvere, ma spazio di immaginazione. E l’immaginazione, si sa, non vive di regole fisse, né tantomeno di schemi e dogmi, ma attraverso “dispositivi” che la inneschino fino a portarla a mutarsi in forma. Da qui il riferimento di Frisa ai Memos di Calvino (il titolo Lezioni Americane venne dato dalla compagna dello scrittore, Esther Judith Singer): notazioni, appunti, abbozzi di idee.
O, per dirla con un’altra voce citata nel testo dalla curatrice, Giorgio Manganelli, “qualunque cosa abbia la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi”.
Ne esce così, come l’ha definita l’architetto Judith Clark, in questo caso “exhibition maker”, una mostra che è anche una speculazione, senza risposte precise ma aperta alla necessità di fornire una serie di domande aperte sulla moda come contenitore-contenuto del contemporaneo, in grado anche di dimostrare come la storia – e i suoi racconti – non siano univoci.
E non si tratta di assolutamente di questioni revisionistiche, ma piuttosto di una serie di visioni che passano, ad esempio, nel racconto della fotografia di moda come strumento – anzi, dispositivo – per la comprensione oltre che dello stile anche di una società, indicatore di differenze e paradigmi da far esplodere.
L’apparato iconografico della mostra comprende una serie di bacheche dove troverete vecchie copertine di Flair – nella Sala del Perugino – così come una sorta di “time-capsule” dove sono stati rimessi in mostra due satiri in ceramica, appartenenti alla collezione del Poldi Pezzoli, fino ad oggi occultati nei magazzini: un altro sintomo di come il museo sia un organo che respira, e dal quale si può resocontare – sempre – un’oscillazione del gusto, un’apertura al presente.
E poi Karl Lagerfeld – per anni l’anima di Fendi – con una serie di bozzetti che non nascondono il tributo ad illustri colleghi; gli abiti di Marni, MSGM, De Vincenzo, Arthur Arbesser con le sue texture lineari che raccontano riferimenti al postmoderno, a Memphis ma anche all’Art Nouveau e al rigore austriaco.
Le didascalie, invece, offrono un “commento aperto” firmato da Chiara Valerio e Roberta Torre.
Un taccuino non filologico, non alfabetico, dove – per chi non la vide all’epoca – è ben difficile immaginarsi come fosse disposto il progetto di Buttazzi; un display che a tratti sembra strizzare l’occhio a panneggi e a cromie ma poi si allontana dal classico quasi a negarlo. E così “Memos” sembra riuscire nell’intento di essere “Una coreografia di curiosità. Non solo abiti, dunque, ma strategie progettuali che restituiscono valore a quei corpi e quelle menti che li abitano”, come scrive Frisa.
E sul finale una domanda che è serpeggiata durante la press preview di questo progetto, che è di quelle così scontate e mille volte sentite che è d’obbligo riportare: a quando un vero museo della moda a Milano? Nella città più fashion d’Europa, dove l’underground attualmente è definitivamente tramontato, il colpo sarebbe ben facile!
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