#ilfilonascosto è la nostra nuova rubrica dedicata al lavoro dei creativi nel mondo della moda. Iniziamo con un’intervista a Giulio Margheri, architetto dello studio OMA, responsabile di progetti di allestimento, curatoriali e di interni tra cui gli spazi dedicati alle sfilate Prada.
OMA, la cui sede principale è a Rotterdam, è una realtà molto diversa da quella degli studi di architettura più tradizionali. La peculiarità di OMA risiede infatti nella trasversalità e nelle differenti scale dei progetti che realizza: dalla costruzione di stadi o grattacieli – dalle precise necessità strutturali e tecnologiche – fino alla progettazione di un singolo oggetto d’arredo che offre altri spazi di libertà e sperimentazione. Questa varietà di competenze è supportata da AMO, l’immagine-specchio di OMA, che segue la produzione dei progetti tangenti all’architettura, ma non strettamente architettonici, come mostre, allestimenti, video, pubblicazioni e molto altro.
Giulio Margheri è un architetto e un ricercatore nel campo dell’urbanistica. Nel novembre 2013 è in Russia a svolgere ricerca urbana presso lo Strelka Institute for Media, Architecture, and Design di Mosca. Ha collaborato con diversi studi di architettura fra cui Ipostudio a Firenze, OFIS a Lubiana, TD architects ad Amsterdam, e istituzioni fra cui la Biennale di Venezia. A partire dal 2014 ha avviato una collaborazione con Michael Schindhelm autore, regista e curatore tedesco. Dal 2015 lavora per OMA-AMO.
Come è iniziato e in che modo si è sviluppato il tuo percorso creativo?
«Durante il mio percorso accademico sono sempre stato interessato a collaborare con diverse figure professionali, questo approccio si è consolidato ulteriormente nell’anno di ricerca allo Strelka Institute, dove ho avuto l’opportunità di sviluppare progetti con colleghi che si occupavano di giornalismo, sociologia, geografia, superando così i confini dell’architettura in senso più stretto. Quella è stata un’esperienza particolarmente stimolante, guardandomi indietro rivedo nelle cose che facevo a Mosca un approccio simile ai progetti che sviluppo oggi per OMA-AMO. L’interesse per ambiti di ricerca affini all’architettura mi ha portato a collaborare con Michael Schindhelm, con cui ho coordinato un progetto per la Biennale d’Architettura di Venezia del 2014, per la sezione Monditalia. In questo contesto sono entrato in contatto con OMA, che nel 2014 insieme al suo fondatore Rem Koolhaas, era lo studio incaricato di curare la Biennale.
Il mio interesse per progetti non strettamente legati all’architettura o al concetto di realizzazioni su larga scala, era presente anche alla Biennale dove abbiamo sviluppato un progetto interattivo sul prossimo futuro di alcuni tra i temi più dibattuti della politica europea.
Queste esperienze mi hanno portato a lavorare all’interno di OMA dove ho trovato la mia collocazione più naturale nel team di AMO. La trasversalità di AMO mi ha permesso di sperimentare formati non strettamente legati all’idea di costruzione architettonica: ho seguito diversi progetti tra cui la ricerca Manifesta Atlas per Manifesta 12, la biennale itinerante svolta a Palermo nel 2016, gli allestimenti per la Mostra LaR100 per i 100 anni della Rinascente a Palazzo Reale a Milano e quelli per la Triennale di Oslo, fino all’ampia collaborazione con Prada. Nello specifico AMO realizza i set delle sfilate per Prada e MiuMiu, ma anche progetti digitali e fisici che nascono in relazione allo show come video, grafiche e pubblicazioni. A partire dal 2016 abbiamo infatti lavorato per estendere i confini della sfilata oltre i suoi limiti temporali, realizzando progetti video come Real Fantasies, Premonitions e Chronicles che mostrano diverse fasi dello sviluppo creativo di ogni show».
Con l’arrivo della pandemia il mondo della moda sta cambiando moltissimo. Nelle ultime due sfilate di Prada, Womenswear SS 2021/2022 e Menswear FW 2021/2022, per esempio, il pubblico è uscito di scena. Come sono cambiate le vostre collaborazioni con l’arrivo del COVID-19? Come vi siete adattati ai grandi cambiamenti del settore?
«La trasformazione nell’uso dello spazio in queste sfilate parte da una precisa riflessione: gli ambienti sarebbero stati visti solo attraverso canali digitali e contestualmente non avrebbero avuto la necessità di accogliere il pubblico. Spazi senza nessuna connotazione funzionale se non quella di essere il set in maniera esclusiva.
Le sfilate su cui lavoriamo accolgono normalmente fino a 1200 ospiti, che, pur essendo un numero piuttosto limitato in rapporto agli spettatori remoti dello show, hanno un grande impatto sull’organizzazione del progetto. Noi creiamo il set dove si sviluppa la drammaturgia della sfilata, in passato era necessario pensare anche alla meccanica oltre che all’incontro fra gli ospiti e i capi presentati. I limiti erano principalmente funzionali: come disporre le sedute, le uscite di sicurezza, ma anche di scala in quanto gli ospiti entravano in un esperienza totale, dove spazio e set erano inscindibili. Nelle nuove produzioni abbiamo lavorato solo su quello che l’occhio della camera avrebbe ripreso.
Col COVID-19 l’opportunità di progettare uno spazio puro ha preso il sopravvento lasciando la possibilità di concentrarsi solo su quello che serviva in quanto display, senza dover mediare o scendere a compromessi con le necessità del passato. È stato interessante vedere come tutti i brand in questa fase si siano trovati a reinventarsi; alcuni hanno sfilato con delle marionette, alcuni sono andati in mezzo alla natura, altri in ambienti completamente digitali e così via. Nel nostro caso c’è stata la scelta deliberata di credere nell’importanza della dimensione fisica, cambiando però in maniera drastica i parametri di come si disegna lo spazio.
La grande differenza entrata in gioco con il COVID-19 è stata anche l’impossibilità di avere incontri dal vivo, è quindi mancata la dimensione materiale, cruciale nella realizzazione di uno spazio così tattile come quello dell’ultima sfilata».
Quali sono stati i criteri e quali i motivi ispiratori per la realizzazione del Menswear show di Prada? Come siete arrivati a concepire la dimensione di un non-luogo?
«L’idea di questa ultima sfilata era di creare una sequenza di spazi che avessero caratteri visivi e atmosfere molto diverse fra loro. Una successione di situazioni determinate da spazialità e combinazioni di materiali.
Lavorando alla materializzazione del set abbiamo guardato molto a spazialità sviluppate per il cinema, come la sequenza di ambienti del film The Rope di Alfred Hitchcock, o la dinamicità del piano sequenza negli spazi di Birdman diretto da Inarritu, per esempio.
Con questo punto di partenza ci siamo chiesti come avremmo potuto approcciare lo spazio.
Fin dall’inizio c’era l’idea molto chiara di lavorare su istanze cinematografiche a cui si è aggiunta la ricerca sugli ambienti e su come comunicare differenti atmosfere. Abbiamo lavorato inoltre sulla rappresentazione del tempo, su come ogni stanza avrebbe potuto corrispondere a una fase del giorno con materialità e atmosfere diverse: l’alba, il tramonto o la notte, scandite senza rispettare l’ordine naturale dello scorrere della giornata. Nello sviluppo del progetto si è poi persa la narrativa legata alle fasi della giornata e si è enfatizzato maggiormente la combinazione di materiali, in un costante dialogo fra morbidezza e rigidità. Il numero e le geometrie degli spazi sono stati delineati testando le proporzioni e sviluppando la strategia video che sarebbe stata adottata per le riprese».
Per le scenografie dello show di Prada avete usato materiali riciclabili. In che modo l’architettura e la moda possono dialogare, per portare gli argomenti della sostenibilità nel quotidiano?
«La sostenibilità è senz’altro un tema molto rilevante e delicato quando si parla di architettura e allestimenti. C’è sempre più attenzione a lavorare con materiali di cui si conosce la filiera produttiva, anche approcciando la sostenibilità in maniera più ampia pensando a strategie di riuso degli allestimenti o dei materiali stessi. Il Gruppo Prada lavora su molti progetti in questo ambito, noi ad esempio siamo stati coinvolti nel progetto Prada Re-Nylon aiutando nello sviluppo della grafica.
Rispetto ai set, considerando che si costruiscono delle scenografie temporanee, è sempre interessante capire come potrebbero essere riutilizzate o solo parzialmente smantellate. Abbiamo sempre cercato di allungare la vita dei set, proponendo e organizzando altre attività al suo interno come le riprese successive la sfilata, ma anche utilizzandoli come infrastrutture per diversi eventi, da performance teatrali a conferenze.
Nel mondo degli allestimenti ci sono compagnie che supportano un’idea di riuso e circolarità dei materiali utilizzati per le costruzioni. Nel contesto francese per esempio (Miu Miu sfila a Parigi) La Reserve des Art supporta i professionisti e studenti del settore cultura e artigianato riutilizzando i materiali provenienti da allestimenti. Buone pratiche che si stanno consolidando sempre di più anche in Italia; nel caso dell’ultima sfilata parte dei materiali saranno donati a Meta, un progetto di economia circolare con sede a Milano, che propone soluzioni per il riuso dei materiali impiegati per gli allestimenti di eventi temporanei.
Che rapporto avevi con il mondo della moda prima di collaborare con Prada?
«Devo dire che il mondo della moda era un mondo che mi affascinava ma solo come spettatore. Non sapevo che cosa volesse dire lavorare attorno a questo tipo di eventi e non avevo idea di cosa fosse l’organizzazione legata ad una sfilata. Tutt’ora mi sento spettatore davanti a questa grande macchina. Questa è infatti una particolarità che trovo dia maggiore valore all’operato dello studio. Lavoriamo come architetti senza nessun tipo di training nel mondo della moda generando interessanti frizioni tra le fascinazioni del mondo dell’architettura e quello del fashion, lavorando con parametri e idee completamente diversi.
Credo che questa sia una condizione che rende speciale e sempre interessante la collaborazione ormai quasi ventennale tra OMA e Prada, capace di generare un discorso stimolante e sempre nuovo. Inoltre il mondo della moda e quello dell’architettura hanno delle tempistiche molto diverse, spesso quando si inizia un progetto di architettura si ha un’idea di cosa fare, ma non è mai chiaro quando il progetto prenderà una forma conclusiva, nel mondo della moda, ancora prima di iniziare sappiamo già quando tutto dovrà essere finito. È un po’ una palestra per architetti dove si impara a rispondere con velocità sul lavoro testando sempre nuove idee e materiali».
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