“ROMAISON 2020” è la mostra al Museo dell’Ara Pacis che segna l’inizio di un progetto ambizioso che mira a proiettare Roma sempre più nel dibattito della moda contemporanea. Per questa prima edizione promossa da Roma Capitale e dall’Organizzazione Zètema Progetto Cultura, sono diverse le collaborazioni che spaziano dal gruppo Rinascente alle Fondazioni cinematografiche di Bologna, Roma e all’Istituto Luce. Ne parliamo con la curatrice Clara Tosi Pamphili che ha strutturato un percorso storico che evidenzia e magnifica il ruolo delle più prestigiose sartorie di costume romane.
Come hai dialogato con lo spazio dell’Ara Pacis per costruire la narrazione di un immaginario collettivo nel quale ha preso forma la mostra?
L’Ara é un luogo espositivo fortemente condizionato dalla vocazione di contenitore: c’é già “qualcosa” dentro molto importante con cui convivere. Spesso per le mostre viene usata solo con un accesso da via Ripetta quasi secondario. Il tema della mostra mi ha aiutato a portare l’ingresso sopra, proprio per introdurre la narrazione del raccontare cosa ci sia sotto. Quindi sotto i capolavori archeologici o cinematografici ci sono laboratori e magazzini, il collegamento fra sopra e sotto é strutturale, quindi vero e quindi funziona. Ho enfatizzato il punto di contatto che lega la posizione dell’Ara alla sua proiezione sottostante, con il colore blu, posizionando al centro una teca, che sembra quasi un ascensore, con i gioielli di Bulgari per Silvana Mangano. Un passaggio tra sopra e sotto, tra capolavori artistici archeologici e artigianali. Così la forma di Archivio metallico, i neon e gli abiti o le forme di legno dei cappelli stanno nel piano sottostante il Museo, come reperti e oggetti di studio.
In un momento nel quale la moda ha bisogno di attingere l’ispirazione dal passato reinterpretandone gli elementi teatrali e le citazioni colte cinematografiche (mi riferisco in particolare a Gucci) diventa il linguaggio stesso un codice fluido nel quale il vero e il falso si confondono, alimentando un favorevole cortocircuito temporale nel quale si rinnova continuamente. Riprendere gli archivi della storia del costume è un’indispensabile passo per portare l’enorme bagaglio italiano all’interno dei musei. Come è strutturata la collaborazione con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea?
Uno degli intenti della Mostra é proprio dimostrare che non esiste un punto di inizio nell’ispirazione, che le citazioni attingono al nostro inconscio e quindi diventano lecite perché filtrate da necessità emotive nuove. Fino ad ora sapevamo che spesso la Moda si ispira al Costume ma non sapevamo che il Costume si ispira alla Moda, in un circolo creativo che a Roma trova il massimo della sua possibilità. Ogni Sartoria ha archivi di migliaia di pezzi autentici, tra cui abiti che non troviamo nei musei più prestigiosi di tutto il mondo. Li mette a disposizione dei costumisti che attingono a questa “biblioteca” per realizzare costumi da Oscar che poi ispireranno la Moda contemporanea. Non c’é una collaborazione strutturata con la Galleria d’Arte Moderna se non contatti come quello per la Mostra di Maria Gallenga con Tirelli visto che Umberto Tirelli negli anni 70 aveva comprato l’archivio Gallenga. Un patrimonio di centinaia di Block-print e campioni, tessuti, abiti meravigliosamente custodito oggi da Dino Trappetti per Tirelli.
Quando la città di Roma avrà il suo Museo dedicato alla moda?
Forse ora perché abbiamo individuato una caratteristica unica, un tema preciso per svolgere una tesi inedita. Comunque un museo dovrebbe avere le caratteristiche di un luogo dinamico e operativo, nello stesso tempo le Sartorie dovrebbero essere satelliti capaci di produrre e conservare possibilmente aperti al pubblico. Quindi un progetto che trovi un epicentro ma che si dirami su tutta la città, come era esposto in mostra, con una mappa tematica che includa anche le Fondazioni, le Maison e le Scuole. Un discorso culturale che si declina naturalmente a Turismo e Formazione.
Hai scelto alcuni dei costumi di scena delle maggiori icone cinematografiche; anche se devo riconoscere un fascino particolare al costume indossato da Donyale Luna – la prima modella di colore che compare sulla copertina di Vogue nel 1966 – in Satyricon di Fellini, e negli abiti di Salò di Pasolini. Puoi parlarcene?
Le icone sono state le mie muse, figure complesse e distanti dall’identità nota e superata della Dolce Vita, mi hanno portato nella dimensione contemporanea perenne che solo la bellezza raggiunge. Donyale Luna é la prima modella di colore ad avere la copertina di un magazine come Vogue nel 1965, non viene capita subito la sua bellezza. così diversa dai canoni tradizionali. In mostra abbiamo riportato la critica di una giornalista americana che sembra la stessa fatta alla modella armena qualche mese fa. Il suo costume é un caso irripetibile che unisce i due più grandi costumisti italiani: Danilo Donati, con la Sartoria Farani, farà i costumi del Satyricon e Piero Tosi il trucco e i gioielli, contribuendo al capolavoro di Federico Fellini. Salò, come gli altri film di Pier Paolo Pasolini sono protagonisti della performance di Tilda Swinton, rimandata per il decreto sul CoronaVirus sugli spettacoli. Il progetto di Olivier Saillard e Swinton Embodying Pasolini unisce le energie di moda, cinema, costume nella ricerca di un nuovo linguaggio sia espositivo che performativo.
Con questa mostra si ritorna alle origini del rapporto tra Moda, Costume e Cinema, per proiettarci verso il futuro della pratica. estetica evidenziandone una continuità. ROMAISON dedica una sezione alle scuole e alle accademie di moda, adottando una visione trasversale nella quale prende forma il laboratorio come strumento e incubatrice di talenti. Puoi parlarcene?
È da tempo che si parla di una Scuola romana nei nuovi protagonisti della Moda come Alessandro Michele, Pier Paolo Piccioli, Maria Grazia Chiuri… è emerso il valore di Scuole che naturalmente esprimono la forza di un dna che unisce le discipline. Penso all’Accademia di Costume e di Moda ad esempio un luogo di formazione inventato dal genio di Rosana Pistolese che da 60 anni continua a unire lo studio del Costume a quello della Moda. Ma potrei dire che tutta Roma é un laboratorio creativo, una città dove la Sartoria nasce per fare gli abiti al clero o agli attori, abiti per personaggi prima che per persone. È come vivere su un grande palcoscenico. Credo che studiare Moda a Roma sia diverso che in qualsiasi altra città.
Perché in Italia si sta incominciando solo adesso a “metterci in mostra”, a valorizzare e raccontare il patrimonio e il contributo nella storia della moda, del costume e il forte legame con il cinema?
Roma come tutta l’Italia sta imparando a raccontarsi ma deve fare i conti con la mancanza di cultura sulle Arti Applicate, non solo non c’è un museo non esiste nemmeno una stampa pronta a recepire progetti trasversali. La nostra eterna capacità di reinventare, la dimensione famigliare delle nostre industrie come le Sartorie di Costume in mostra, spesso poco propense a esporsi, si concentra sul fare e non sul raccontare. Sono storie nuove che rappresentano un progetto futuro grande. Far vedere che oltre a saper fare queste Sartorie raccolgono migliaia di pezzi e, quindi, fanno un lavoro di ricerca e archivio enorme: significa mostrare un altro lato unico del Made in Italy. L’artigianato colto che non lavora solo con le mani ma soprattutto con un disegno che sta nella sua testa, che si basa su approfondimenti anche scientifici che sa far evolvere la tecnologia forte dell’esperienza del passato.
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