Tra le suggestioni tecno-visive, visioni simboliche e terrene, le riesumazioni musical epocali (Village People batte 10 a uno Michele Zarrillo) che
Raffaele Curi e la Fondazione Fendi regalano al pubblico romano ormai da sette anni forse quella di piu’ viva e pungente sincronia con l’attualita’ ce la rende il carrello della macchina da presa sui volti ancestralmente affacciati sull’abbisso dei rom, che si susseguono in fila in un campo (di accoglienza?, di concentramento?) sulle note melanconiche della fisarmormonica de
Les Negres Vertes. Come d’altronde tiene a sottolineare l’interesse personale alla tematica della diversita’, con parole e concetti di kennediana memoria (
Ich Berliner…) Donna Alda Fendi (Fondazione Fendi)
“io sono migrante, rom, ebrea, omosessuale, nera” la quale oltre ad essere mecenate in quest’era di grandi negazioni culturali, assicura che la sua vita personale e professionale
“e’ stata sempre un attraversamento (…) quei volti mi colpiscono perche’ parlano anche di me, di noi. Non rappresentano l’alterita’ assoluta ma l’altro che alberga in noi. Quell’io straniero che ci abita e senza il quale saremmo solo piu’ miseri, piu’ insignificanti” come a sottolineare una decadenza decantata ma che urge di reversibilita’ nell’ambito della cultura italiana
piu’ che in ogni altro paese europeo di lignaggio artistico culturale come il nostro paese ormai stenta a rappresentare. Dopo la trilogia sul potere e sui popoli quest’anno Raffaele Curi si e’ inerpicato sulla tematica del mistero (socio culturale? Come mai i politici sono sempre piu’ stolti in materia. Personale, perche’ la leggerezza non ci aiuta ad essere meno pesanti quando pensiamo al futuro, sia pure e solo, quello prossimo?). L’appuntamento primaverile di quest’anno infatti non ci ha fatto certo rimpiangere questo modo tutto international (per noi incomprensibile) delle lunghe file d’attesa davanti all’Antico Mercato del Pesce degli ebrei al Circo Massimo di Roma, anche se abbiamo trovato arduo (qualche facinoroso potrebbe rispondere ma cos’e’ l’arte se non e’ ardua?) l’accostamento con le sonorita’ eighty degli “occhi alla Bette Davis” di Kim Carnes, nello spettacolo dal titolo
Sfiorerai il mio destino come una farfalla. Tra i quadri proiettati nel sontuoso e spettacolare sistema cinerama che perimetra l’interno del Mercato si susseguono proiezioni, citazioni e flashes pittorici da
La Resurrezione di
Piero della Francesca al meno noto ma certamente non meno artistico
La notte di Battista Dossi (fratello di Dosso ) a
l’Amalassunta di
Osvaldo Licini, Kabala e re “nudi” il tutto davanti agli ospiti in piedi sui quali incombe una raggiera di camicie bianche appese, come corpi svuotati anche essi guardinghi e in attesa. E anche se, qualcuno pensa che l’abito fa l’uomo e il re fa lo stile… Raffaele Curi ci suggerisce un
Re nudo che si affaccia sulle scene leggero in tutta la sua adamitica veste, non spettera’ la derisione letteraria di fiabesca origine ma lo stupore ormai impletato di un pubblico che a fatica raccoglie il filo rosso delle sue stesse personali supposizioni di comprensione e partecipazione. Pubblico ed evento al quale resta pero’, un monito di utilita’ esistenziale, come detta il
Talmud:
Non ricercare quel che è troppo difficile per te e quel che ti è nascosto non cercar di scoprire. Applicati a ciò che ti è permesso ma non ti occupare delle cose segrete» (Talmud Hag. 13a).
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Spettacolo bruttissimo e inutile