Un’inquadratura fissa, giocata sull’equilibrio verticale di un palo e orizzontale del movimento delle macchine, e una serie di 120 disegni, una sorta di album da viaggio contemporaneo, dello stesso spazio urbano: è un esercizio di immobilità, che porta il titolo di Il viaggio è andato a meraviglia, a farci muovere i primi passi in Very Well, on My Own, la prima mostra antologica dedicata in Italia a Ludovica Carbotta nella Sala delle Ciminiere del MAMbo, curata da Lorenzo Balbi con l’assistenza di Sabrina Samorì. Esperendo lei stessa la città con il proprio corpo attraverso processi empirici che esulano da conoscenze pregresse e metodologie di misurazione convenzionali, Carbotta svela fin dal principio il suo tentativo di diventare parte integrante di un paesaggio urbano rimanendo immobile e contrapponendo la propria individualità, quasi neutralizzata dal gesto mimetico, al continuo e omologante movimento che la circonda.
L’interpretazione è ridotta al minimo: il video – esercizio uno – è un lunghissimo piano-sequenza di 120 minuti e i disegni – esercizio due – propongono uno sguardo istantaneo dello stesso paesaggio in movimento, di cui lo spettatore diventa parte. È chiaro, immediatamente chiaro, che il corpo è l’ordine di grandezza nel confronto con la dimensione urbana, reale o immaginifica che sia: nella serie fotografica Il mio spazio, per esempio, Carbotta proietta la propria figura sullo spazio urbano, come fosse una torre, un grattacielo o un’effimera scultura pubblica, nel tentativo di ribaltare gli ordini di grandezza della città; mentre in Imitazione usa il proprio corpo come forma positiva da cui ricavare un calco che costituisce una sorta di autoritratto. «Lo spazio della città, con le sue architetture, costituisce un oggetto di difficile comprensione, un’astrazione dall’esperienza individuale. Attraverso l’esplorazione fisica di questi agglomerati urbani, rifletto sulle strutture sociali che li hanno generati», afferma l’artista.
Superata, in ingresso, l’opera-barriera che si frappone tra l’area espositiva e i fruitori, che non possono attraversare ma devono muoversi intorno, interagendo con il movimento, il percorso espositivo prosegue con una selezione di opere che svelano il rapporto tra l’aspetto visivo e quello di immaginazione all’interno dell’esperienza urbana compiuta dall’artista.
È il caso, per esempio, di Wrapped in thought (Costruttore di mondi molto simili al nostro), una scultura simile a un assemblage di dettagli architettonici – una scatola poggiata su due cavalletti sovrapposti al rovescio – all’interno della quale si può scorgere la polvere depositatasi nel tempo sui monumenti e gli edifici della città di Torino, raccolta e custodita dall’artista come impronta che, mossa dal vento, disegna su uno spolvero il profilo del paesaggio inquadrato dalla scatola. L’impronta, o per meglio dire l’immagine dell’impronta, è segno indecifrabile anche in Invisibile Modulor, opera del 2009 originata da un’azione performativa che Carbotta ha agito tra il suo studio e le strade limitrofe camminando per diversi giorni scalza per il suo quartiere strofinandosi, ogni volta al rientro, le piante dei piedi con lo stesso tessuto.
Sempre sulla traccia dello spazio occupato temporaneamente dalle persone in movimento nella città, che la scultura rende permanenti come segni urbani, incontriamo nel percorso Images of Others Have Become Parts of the Self, una struttura lignea (eco di Scala Reale) in grado di sostenere il peso di Carbotta e di portarlo il più in alto possibile; Paphos (2021-2024), una serie di sculture che riflette sull’idea di crescita e di trasformazione in relazione alla pratica scultorea; e Die Telamon (2020-2024), una famiglia di sculture in cui ciascuna è la riproduzione dell’altra, ma ogni membro ha generato una sua storia e un suo personale profilo psicologico. L’attitudine alla costruzione, che in Carbotta ricorre operativamente, nella produzione recente non appartiene più soltanto alla dimensione materica, scultorea e performativa ma è andata ampliandosi verso la creazione fantastica di luoghi e di orizzonti psicologici.
Die Telamon è un esempio, ma non l’unico, di ciò che Carbotta definisce fictional site specificity, «una forma di pratica site-specific che considera la realizzazione di spazi immaginari o re-interpreta luoghi reali con contesti di finzione, recuperando il ruolo dell’immaginazione come valore fondamentale per la costruzione della nostra conoscenza». Anche The Original Is Unfaithful to the Translation (2015), composta da elementi architettonici che riproducono alcune delle case in cui l’artista ha vissuto così come la mente le ha conservate, ricorre alla finzione, alla memoria e alla rielaborazione di conoscenza esperienziale e risponde alla volontà di Carbotta di intromettersi nella realtà quotidiana con elementi astratti che potrebbero essere adottati in situazioni di vita reale. Nell’installazione in questione vediamo, per esempio, la casa in cui l’artista ha vissuto a Torino, all’ultimo piano e senza ascensore, rappresentata attraverso il ricordo delle scale da salire e scendere a piedi. Ma c’è anche il ricordo di una casa molto rumorosa, suggerita da un’accentuazione di tappi per le orecchie.
Anche quest’opera, come tutte le altre – non solo quelle esposte – si completa attraverso la narrazione: un video, che passa in rassegna tutti i modi possibili per occupare queste case; un audio guida, che racconta il loro utilizzo; e un numero di telefono – da chiamare e a cui risponde un agente immobiliare che prova a vendere la casa – concorrono insieme alla scultura alla definizione di un luogo domestico in relazione alla trasfigurazione, al ricordo, al tempo e in rapporto al tema dell’individualità e dello spazio privato.
Dell’individualità, intesa condizione d’isolamento dell’essere umano, è Monowe a raccontare di un agglomerato urbano fittizio abitato da una sola persona. Monowe è una città immaginaria, senza una posizione geografica definita e circoscritta e abitata da una sola persona, costruita attraverso episodi. Il primo tassello della produzione risale al 2016, nel Parco del Cavaticcio di Bologna, poi il progetto ha trovato nuove realizzazioni, a Gallarate per esempio, e alla Biennale di Venzia del 2019, dove Carbotta spiegava «Monowe è una contraddizione in termini, è un mezzo per analizzare la condizione di autoisolamento e di individualismo che, secondo me, viviamo anche nelle città di oggi… L’idea inziale era di un commento a questo isolamento, al bisogno di continua protezione, era un’idea un po’ assurda di creare un luogo talmente esclusivo che alla fine diventa una sorta di prigione».
Al MAMbo Monowe si conclude con la proiezione dell’omonimo film (progetto vincitore dell’11^ edizione dell’Italian Council realizzato con la produzione esecutiva di BoFilm, e destinato al Castello di Rivoli) che è ambientato in un tribunale e ha come epicentro narrativo un processo giudiziario a carico della sola abitante della città, che si mostra nelle sue differenti età, incarnando il punto di vista del giudice e dell’imputato fino a evidenziare il pericolo insito nel ritiro e nella sparizione della comunità.
Mantenendosi nel terreno della fictional site-specificity, il percorso prosegue con uno sguardo sul passato e sul futuro immaginari, di cui sono esempi Plenum, una potenziale archeologia futura costruita dall’analisi dei report degli scavi archeologici della sinagoga di Ostia Antica e accompagnata dalla registrazione di una voce e da un segnale audio in Linear Timecode che rafforza l’evocazione di un’ambientazione a venire; e Falsetto. Quest’opera è una serie di modelli architettonici archetipici come l’arco, il ponte, il muro, la torre, la tenda (ognuno intitolato seguendo una nomenclatura specifica che circoscrive la tipologia di modello e il livello di sperimentazione, rimandando allo sviluppo di prototipi) che lasciano prefigurare un futuro in cui è necessario re-immaginare le strutture da un grado zero di conoscenza empirica. Il titolo di ciascun lavoro segue una nomenclatura specifica che circoscrive la tipologia di modello e il livello di sperimentazione, rimandando allo sviluppo di prototipi.
Carbotta ipotizza anche l’impatto sullo spazio urbano di calamità naturali, con Dodici e un minuto, e immagina un futuro prossimo in cui infrastrutture e altri non luoghi vengono sfruttati per ricavare abitazioni in Overcrowded Village. Concludono la mostra Patologia da decompressione, una personale misurazione del paesaggio lacustre del Lago di Como con il fine di individuare e calcolare il punto più profondo del bacino; e il video Solid Void, realizzato con la tecnica dello stop-motion su una carta topografica della città di Torino, trasfigurata fino ad apparire come un unicum privo di passaggi e spazi interstiziali, che appare perciò come un solido ininterrotto, chiuso su se stesso e privo di spazio attraversabile.
Ed ecco, a proposito di attraversare, ricorre in Very Well On My Own la sensazione di passare attraverso ricostruzioni non mimetiche, non fedeli alle fonti ma possibili, proiettate nel futuro. C’è in tal senso una vecchia affermazione di Carbotta che ritorna e risuona, generosa e attuale: «la fisicità della forma torna a essere un materiale dell’immaginazione».
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