Sulla sinistra Yves Klein, sulla destra Arman. Le poetiche opposte e complementari si interfacciano in un dialogo frontale che dà origine a un campo magnetico, attraendo lo sguardo a immergersi nella profondità elettrica del blu-Klein o nell’accumulazione stratificata di Arman. Un magnetismo innescato dall’allestimento firmato dall’architetto Mario Botta che accompagna il confronto tra i due artisti, riflettendo sulla possibile rappresentazione che oggi può avere un gesto come quello di Klein: teorizzare il vuoto. Botta disegna una forma espositiva sacrale, tracciando al centro una navata ai cui lati si aprono delle absidi poligonali che abbracciano le ricerche dei due artisti dalle loro prime sperimentazioni poetiche fino alle opere più mature.
Un’abside chiude l’esposizione in cui il violino bruciato e conservato nella resina Senza titolo (1969) di Arman emana, rialzato, tutta la sua luce. Un display che tende a esasperare la bellezza e l’intuizione di Klein e l’atteggiamento accumulativo auto ironico del consumismo soffocante di Arman. «Le vide et le plein, il vuoto e il pieno. Le due entità scelte da Klein e da Arman per orientare le proprie azioni artistiche che trovano una definizione trasversale a epoche e culture, toccando discipline diverse dalla fisica alla filosofia, dalla poesia all’immaginario popolare» racconta Giancarlo Olgiati dei due artisti nizzesi, conosciuti nella galleria Alfred Schmela di Düsseldorf. «Per Klein il vuoto, in quanto qualità spaziale, si identifica anche con la dimensione poetica di immaterialità verso cui tende tutta la sua vicenda artistica, influenzata dalla filosofia Zen. Attraverso il concetto di plein Arman esalta invece l’oggetto, frutto della produzione industriale e ne duplica la presenza fisica fino alla saturazione».
Con un intrigante vis-à -vis tra sessanta lavori, la Collezione Giancarlo e Danna Olgiati di Lugano inaugura con Yves Klein e Arman. Le Vide et Le Plein la sua stagione autunnale 2024, in mostra fino al 12 gennaio. Un progetto espositivo inedito che mette a confronto per la prima volta l’opera dei due artisti francesi esponenti del celebre movimento del Nouveau Réalisme. La mostra è a cura di Bruno Corà ed è realizzata in collaborazione con la Fondazione Yves Klein di Parigi.
A inaugurare la ricerca di Klein nella prima abside di sinistra, è una serie di monocromi del rosa, del giallo, del bianco, del blu fino a quelli dell’oro che, realizzati tra il 1955 e il 1959, coprono in maniera esemplare la fase “storica” della sua intensa stagione del monocromatismo. Dinanzi a loro, le impronte di Arman come prime soggezioni della sua arte. Nel 1959 realizza i primi lavori costituiti da rifiuti inscatolati in teche di plexiglass, considerandosi l’interprete di un’epoca dominata dalla società dei consumi che «in circa mezzo secolo ha prodotto più oggetti che nei cinquantamila anni precedenti», affermava l’artista. Si susseguono poi le forme sinuose dai rimandi preistorici di corpi femminili che Klein faceva imprimere e che definiva come delle tracce di vita; le indagini di Arman sugli oggetti del quotidiano che dopo essere accumulati venivano vivisezionati, posseduti, in un rapporto d’amore e trasporto con la società dei consumi; fino alle ultime absidi che hanno come protagonista il fuoco per entrambi gli artisti, vissuto come forza distruttiva quanto creatrice.
Nel 1947 Klein si iscrive al club di judo di Nizza, nel quartier generale della polizia, dove conosce tra gli altri Armand Fernandez (Arman) e il poeta Claude Pascal. I tre amici, oltre alla passione per il judo condividono anche quella per il viaggio, per la creazione artistica e poetica e la frequentazione della spiaggia nizzese dove scelsero lì di dividersi il mondo: ad Arman la terra e le sue ricchezze, Pascal l’atmosfera, il vento, e Klein il cielo e il suo infinito. D’altro canto, se Klein nel 1958 per la sua storica mostra Le Vide alla galleria di Iris Clert a Parigi lasciò gli spazi espositivi completamente vuoti, due anni più tardi Arman mise in atto nella stessa galleria un’operazione di segno opposto: lo spazio venne colmato di detriti, oggetti e vecchi mobili trasformandolo in una vetrina che il pubblico poteva osservare solo dall’esterno. Dimensioni opposte dalla forza tale che quando si interfacciano generano un cortocircuito elettrico.
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