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A Milano un invito all’ascolto: la mostra di Liliana Moro al PAC
Mostre
Uno spazio lungo da percorrere lentamente, con cautela. Ogni sua connotazione è dissolta nel colore del buio. Si è forse in viaggio, all’interno di un vagone del treno. In lontananza il rumore delle ruote che scorrono decise sulle rotaie, dal ritmo continuo, dal suono metallico. Il richiamo di una voce avvolgente si inserisce sugli spigoli di questo rumore di fondo. I passi esitanti continuano a percorrere ora rassicurati, chiamati ad ascoltare, mossi dal desiderio di farlo. Al centro di questo spazio disorientante, tre casse acustiche emettono la voce dell’artista che dà corpo all’opera teatrale L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett del 1958. Insieme alle casse, si apre l’immagine di una scenografia essenziale che Moro estrae e ingrandisce dal dramma teatrale: una buccia di banana e una grande banana di cemento illuminata dalla luce bianca di un neon, davanti una lamiera verticale dalla linea seghettata. Una messa in scena che è un omaggio, forse un congedo dell’artista in una fase matura della sua carriera attraverso il confronto con uno degli scritti più malinconici del drammaturgo, in cui il protagonista trae le conclusioni del proprio passato. Andante con moto (2023) è un’installazione realizzata da Moro proprio per gli spazi settoriali del PAC che dall’alto del primo piano apre le porte alla narrazione dell’intera della mostra da cui, non a caso, prende il titolo. Perché ci viene richiesto di ascoltare?
Fino al 15 settembre il PAC di Milano ospita Andante con moto, l’ampia personale di Liliana Moro curata da Letizia Ragaglia e Diego Sileo che, dopo una prima tappa al Kunstmuseum Liechtenstein, arriva nella città d’origine dell’artista con una selezione di opere dagli Ottanta a oggi, alcune qui appositamente riallestite e altre inedite. Il filo conduttore della mostra è il suono, corpo fondamentale nel lavoro dell’artista che da sempre ricerca una relazione partecipativa con lo spettatore: quelle di Moro sono opere che invitano all’ascolto, che richiedono uno sforzo, una curiosità. Atti di fiducia, superando quella paura vertiginosa d’inizio per dirigere i nostri passi lungo lo spazio vuoto, o meglio aperto, di “ ”: una distesa di vetri rotti così fragili da sgretolasi sotto il nostro peso eppure così insidiosi da ferirci alla nostra disattenzione. Atti di libertà, di Spazio libero (1989) che dichiara ad alta voce un’apertura al mondo. Inoltre, sono gli oggetti comuni, quotidiani, quelli che assemblano le opere di Moro, chiedendo di guardare oltre all’apparenza delle cose come In no time (2024), dove una coperta di pile stretta da due cinghie rosse avvolge il rumore fragile e discontinuo di una goccia che cade, un invito alla cura in un momento storico così incerto e imprevedibile; un abbraccio che torna anche in Avvinghiatissimi (1992): commovente, crudo, come un addio su cui non ha forza nemmeno la gravità. Una realtà poetica tanto quanto cruda, la cui dimensione politica sta nel modo in cui lo spettatore si relazione con l’opera. Una goccia d’acqua che cade in un profondo marino, oscuro e senza punti di riferimento.
In Onda (2021) possiamo solo aggrapparci all’espressività del suono emesso dalle diversità marine per comunicare tra loro, intralciate dal nostro specismo violento e supremo. Il suono è capace di attivare relazioni sensoriali totalizzanti, dai processi immaginativi sinestetici. In Moi (2012) e Le nomadi (2023) si fa scultura, creando un ambiente circolare in cui posizionarsi al centro o chinandosi per ascoltare voci di donne fuoriuscire da zaini eclettici e colorati. Nello spazio centrale del PAC si incontra lo sguardo ironico di E le stelle stanno a guardare (2008-9); si inciampa sui 70 pattini in ferro de La passeggiata (1988) privati della loro funzione e uniti, o costretti insieme, da una lunga catena e si scende per esplorare Spazi (2019) di fronte alle grandi vetrate: una foresta di piedistalli di altezze diverse sorreggono le moquette realizzate da Moro delle sue principali esposizioni. La ricerca del connubio perfetto tra le sue opere e lo spazio, tra cui anche quella di Andante con moto per il PAC.
Dalla balconata si affacciano i volti di Voci che attraverso lo strumento del megafono si fanno portavoci di una collettività. È lo stesso elemento che in Senza fine (2010), prima ancora di entrare nell’esposizione, accoglie il pubblico con le note significative e simboliche di Bella Ciao in 25 lingue diverse, per poi condurlo dinanzi a una gigantografia che occupa l’intera parete d’ingresso di un microfono. Sono tutti strumenti che intensificano e moltiplicano a un grande platea la voce, il suono, il rumore. Liliana Moro ci invita a percepire ciò che ci circonda tendendo l’orecchio verso un’alterità prossima, contro un sistema sempre più individualista che soffoca la voce, copre lo sguardo e anestetizza i sensi. Andante con moto si relaziona con l’intervento pubblico e permanente di Moro nel parco di CityLife dove, nel 2023, è stato installato Sundown: numerose sedie in bronzo compongono una possibile platea per un pubblico che durante il giorno può ascoltare in diretta RadioTre e nell’ora del tramonto, quando un allarme avvisa il momento, osservare lo spettacolo del sole calare.
La project room del PAC ospita invece la serie fotografica Je m’appelle Olympia di Alice Guareschi. Un’azione per luci di sala realizzata dall’artista, per un pubblico ristretto d’invitati nel 2012, nell’eccezionale teatro parigino: uno spettacolo di luci, nessuna trama, nessun attore, dal tenore delicato a volte quasi impercettibile racchiuso in 16 fotografie per una platea vuota. Una coreografia di luci che risvegliano la memoria latente del teatro, capovolgendone il punto d’osservazione. Le esperienze di Moro e Guareschi hanno una somiglianza: attraverso il suono o la luce entrambi gli sguardi delineano uno spazio d’azione diverso, privo di palco, di connotazioni imprescindibili e omologate.