Palazzo Grassi riapre al pubblico ospitando la prima grande monografica dedicata alle opere di Youssef Nabil, artista di origine egiziana le cui creazioni ci conducono in un viaggio alla scoperta di un Egitto romantico e dal passato splendente. Curata da Matthieu Humery e Jean-Jacques Aillagon, la personale raccoglie per l’occasione più di un centinaio di opere, tra fotografie e video, che ricostruiscono l’intera carriera dell’artista.
Come ci suggerisce il titolo, “Once Upon a Dream” ci culla dolcemente in un sogno malinconico che riconduce a un viaggio fantastico in un Egitto glorioso. Come la trama di un film, il percorso della mostra si dipana progressivamente svelandoci i grandi temi affrontati abilmente da Nabil grazie alle fotografie e alla proiezione dei suoi tre video (Arabian Happy Ending, I Saved My Belly Dancer e You Never Left) parlandoci delle problematiche che il Medio Oriente è costretto ad affrontare attualmente, il tutto sapientemente velato da una poetica nostalgia e da una carnale sensualità . Questa diffusa malinconia la si riscontra anche nel processo creativo impiegato da Nabil, in cui le sue stampe alla gelatina d’argento, successivamente dipinte a mano, richiamano l’iconografia tradizionale delle locandine dei film con cui l’artista ha popolato la sua infanzia in Egitto.
Partendo dalle prime sale della mostra a Palazzo Grassi, con la serie fotografica delle Icone velate, veniamo immediatamente posti di fronte alla complessità dei temi affrontati da Nabil, in questo caso portando a interrogarci sulla storia e sulla complessità del velo, contemplando la lunga fila di celebri donne orientali e occidentali fregiate con tale indumento. Le donne, infatti, sono le vere protagoniste della mostra, un omaggio alle figure forti e anticonvenzionali che dominavano l’industria cinematografica egiziana nell’epoca d’oro, quando le questioni sociali venivano affrontate e discusse in modo moderno e cosmopolita. Opere come In Love, Denver 2012 e Sweet Temptation, Cairo 1993 ci parlano di figure femminili tenaci e libere anche dalle categorizzazioni sessuali, proprio come un inno d’amore e di libertà vuole essere The Last Dance del 2012, una sequenza di immagini astratte nate dalle forme del vestito di una danzatrice del ventre mentre la immaginiamo esibirsi in un ballo dal radicato potere celebrativo.
Proseguendo la visita, appare evidente il modo in cui emerga dalle opere la dicotomia tra la forte nostalgia verso la terra natale e l’inevitabile partenza per gli Stati Uniti e l’Europa al fine di emanciparsi, lasciando trapelare, attraverso la precisione compositiva e i colori vibranti dell’alta moda, i suoi mentori giovanili, David LaChapelle e Mario Testino.
La mostra, inoltre, presenta alcuni oggetti sapientemente selezionati dalla collezione privata dell’artista, tra cui alcuni manifesti di film egiziani dagli anni Quaranta e Settanta, appartenenti quindi al periodo glorioso dell’industria cinematografica di Nilwood e in cui ritroviamo la stessa gioia e gli stessi colori dell’arte di Nabil.
Nelle opere di piĂą recente produzione esposte a Palazzo Grassi, vediamo come Nabil abbia progressivamente sottratto la figura umana a favore di un focus sullo sdoppiamento e sulla sovrapposizione di elementi astratti, palesando i riferimenti diretti al viaggio attraverso simboli come la strada e la ferrovia.
Le fotografie di Nabil sono indubbiamente autobiografiche ed essenzialmente spirituali, tasselli di un personalissimo diario visivo a cui l’artista sceglie di renderci silenti spettatori. Come una vera missione, l’artista sente la responsabilità di condividere con noi i suoi pensieri più intimi guidandoci dolcemente verso una visione diversa del mondo, modulata attraverso i suoi stessi occhi e la sua memoria.
Con la stessa abilità dei pittori del passato, Nabil si inserisce nelle sue opere creando il ciclo degli autoritratti, opere contraddistinte dalla presenza del corpo disteso dell’artista in primo piano, di spalle, inserito in ambienti più o meno riconoscibili, dando così vita, come racconta lo stesso Nabil, a «testimoni di quella riflessione e delle storie che ha generato da un luogo all’altro. Dato che ogni ritratto è scattato in una città diversa, in ciascuna di quelle mi sentivo uno spettatore e dovevo andarmene… la stessa sensazione che ho riguardo tutta la mia vita… per me, siamo tutti qui per andare via».
Non a caso è un autoritratto l’opera chiave della personale a Palazzo Grassi e, probabilmente, dell’intero lavoro di Nabil: si tratta di Self Portrait with Roots (2008), in cui l’artista si fotografa delicatamente disteso sulle radici maestose di un albero, apparendoci come una visione fluttuante tra le braccia nodose dell’arbusto, vene vegetali attraverso cui Youssef nutre il mondo servendosi della sua arte. La sensazione di fragilità è commuovente, osservando un uomo che ridiventa bambino facendosi piccolo e cercando protezione nell’abbraccio delle radici ma che, allo stesso tempo, temiamo possa scomparire improvvisamente, inghiottito da un’oscurità inaspettata quanto intrinseca nell’essenza delle cose.
Come un agrodolce risveglio dopo un sogno magicamente verosimile, il polittico I Will Go to Paradise (2008) con cui si conclude la mostra ci parla di partenza, di morte e di aldilà , i tre temi fondamentali della poetica di Nabil. Ritraendosi ovviamente di spalle e vestito negli abiti tradizionali egiziani, si allontana dallo sguardo dello spettatore, immergendosi gradualmente fino a scomparire nell’acqua alla luce del tramonto. Il calare del sole diventa metafora perfetta della partenza e dell’esilio dell’artista segnandone la sua intera esistenza, oltre che voler essere un omaggio al dolce ricordo della luce del Cairo che continua a splendere eternamente nella memoria di Nabil.
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