Si intitola Double Take la nuova mostra di A plus A Gallery, a cura degli studenti della School for Curatorial Studies Venice, istituzione che proprio nel 2024 festeggia i suoi primi vent’anni di attività. L’esposizione presenta opere di Paolo Cirio, Jesse Darling, Simon Denny, Kasia Fudakowski, Enej Gala, Monilola Olayemi Ilupeju, Eva & Franco Mattes, Ahmet Öğüt e Barbara Prenka.
Il titolo scelto per l’esposizione fa riferimento ad un’espressione inglese che indica l’azione di guardare una seconda volta, ma con maggiore attenzione, ciò che ci troviamo davanti agli occhi, che si tratti di un’opera d’arte, di un video YouTube o di un ritaglio di giornale. Ha a che fare, dunque, col notare, col ricercare quel qualcosa che, ad una prima veloce occhiata, è passato inosservato, perduto nella miriade di immagini che ci circondano. Ed è proprio questo che ci invita a fare Double Take, proponendo opere che nascondono significati multipli e stratificati: la mostra ci chiede di posare il nostro sguardo, ancora e ancora, sulle opere esposte, di metabolizzarle lentamente e criticamente.
Perfetto esempio di ciò è il lavoro The Bots (2020) del duo Eva & Franco Mattes, une serie di video dove complesse interviste sulla rimozione dei contenuti “problematici” dai social network si trasformano in tutorial di make-up: mentre gli attori nascondono quelle che vengono percepite come imperfezioni del volto, diventiamo coscienti di come un altro processo di occultamento, ben più subdolo, sia in corso online. Interessante è poi come l’installazione di questo lavoro si stagli quasi come una sbavatura nera sulla vetrina della galleria, come ad avvisarci, fin da subito, che un intricato processo di velature è in corso all’interno dello spazio espositivo.
Particolarmente interessanti sono poi le due opere di Enej Gala: Nutcracker (2024) e Starmaker (2018), le quali ci parlano, rispettivamente, della censura auto-imposta dal genere maschile e da coloro che cercano la fama. In entrambi i casi, infatti, si ha una sorta di processo di auto-mutilazione, dove parti di sé stessi vengono sacrificate e represse per poter essere accettati a pieno dalla società che ci circonda.
Tra le opere seguenti troviamo anche un meraviglioso, coloratissimo tappeto di Barbara Prenka: si tratta della riproduzione di un oggetto che arredava la casa di sua zia, tristemente bruciato dall’esercito serbo durante la guerra. Si tratta, dunque, di un’intima riflessione su come il processo di censura non abbia a che fare solamente con il controllo dei mezzi di comunicazione di un paese, ma anche con la distruzione degli oggetti che formano la nostra quotidianità. La Prenka, però, riporta in vita questo immaginario casalingo e, con esso, il ricordo di una realtà ante-conflitto.
Al piano superiore della galleria troviamo poi, oltre ad un collage di Jesse Darling, una vera e propria sala di ricerca con tutta una serie di articoli di giornale, manifesti, video, cataloghi e documenti storici, fra cui le fotografie originali delle proteste del 1968 di Graziano Arici, che raccontano casi emblematici di censura che hanno interessato la storia della Biennale, come la (piuttosto recente) chiusura del padiglione dell’Islanda di Christoph Büchel, nel 2015.
Quella presentata dalla School for Curatorial Studies è, dunque, una mostra rara nel panorama contemporaneo: si tratta, infatti, di un’esposizione che richiede tempo, che non ha paura di sottolineare l’ignoranza di chi guarda e tutte le contraddizioni implicite allo stesso mondo dell’arte. Si tratta di temi non solo interessanti, ma anche necessari in un momento storico in cui, sempre più, amiamo fermarci alla superficie.
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