-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
A tu per tu con Rebecca Moccia: The Loners, a Torino
Mostre
Dalla creazione dei Ministeri della Solitudine – dicasteri istituiti nel Regno Unito, in Canada e Giappone inizialmente con l’intento di offrire soluzioni rispetto questa condizione, divenute in realtà strumenti per tracciarne semplicemente il costo economico e sociale – e attraverso le architetture solitarie dei parlamenti di questi stessi paesi – come ricordano anche i curatori Elena Bray e Iacopo Prinetti – Rebecca Moccia prosegue da Cripta747 la sua indagine circa le metodologie e le finalità attraverso cui i dispositivi burocratici neoliberali formano la Solitudine.
The Loners guarda alla nostra relazione diretta con le istituzioni e alla loro incapacità di ascoltare, rappresentare e coinvolgere lɜ propriɜ cittadinɜ e le comunità allargate e racconta una solitudine contemporanea più marcatamente politica, distante dai processi decisionali governativi, ridotti ad un voto solitario nella cabina elettorale, unico gesto di partecipazione tanto atrofico quanto lontano da forme collettive di mobilitazione. Da un punto di vista espositivo il lavoro formale e d’archivio che Moccia ha condotto assume forme scultore e sonore: una traccia audio – di Renato Grieco e Rebecca Moccia prodotto e presentato da Paint It Black – è diffusa all’interno dello spazio accompagnando la visita con campionature audio stranianti combinate a un algido voice-over che ripercorre l’indagine attorno al tema della Solitudine.
Rebecca, chi sono i Solitari?
«La mostra si apre con, e lascia aperto questo interrogativo: potrebbero essere lə votantə, nel loro rapporto con se stessə e con la politica così come le cabine elettorali stesse antropomorfizzate nelle forme e tipologie, e nelle sculture presenti nello spazio espositivo».
Si parla, nel testo che accompagna la mostra, di Solitudine contemporanea. Quali sono le cause e quali le conseguenze? Quali dinamiche la acuiscono e quali invece possono essere i rimedi?
«Nella mia ricerca sulla solitudine, che segna un nuovo passaggio con la mostra da Cripta747 ma che si protrae ormai da diversi anni, ho lavorato principalmente sulle strutture politiche e sociali che modellano questo stato emotivo e la percezione che ne deriva per rintracciarne le radici materiali e la possibilità di una sua contro-narrazione che, a dispetto delle rappresentazioni più retoriche, stigmatizzanti e psicologizzanti, riconosce la solitudine come un prodotto coerente e funzionale al modello socio-economico capitalistico e alla sua riproduzione. In passato ho lavorato sulle architetture burocratiche e parlamentari che contribuiscono a formare soggettività sole, in The Loners, mi sono concentrata sulla dinamica del voto come relazione principale tra cittadinə e politica. Più che i rimedi nella mia ricerca mi domando se una ritrovata dimensione collettiva della solitudine possa rappresentare uno strumento di empowerment. Negli ultimi secoli infatti ci sentiamo più solə e ci sentiamo solə in modo diverso, in tantə. Indirizzando questo dolore verso la sua vera causa potremmo trasformarlo in uno strumento di lotta?».
Da un punto di vista espositivo la mostra presenta il risultato di un tuo importante lavoro formale e d’archivio intorno alle architetture elettorali che svela un carattere marcatamente politico della Solitudine…
«Quando ero bambina ricordo che la cabina elettorale per me era elemento a cui si legava una frustrazione, in quanto luogo chiuso ed isolato dove non mi era permesso entrare con i miei genitori, così come non mi era permesso sapere per chi avessero votato, visto che alle mie richieste mio padre rispondeva pedissequamente “il voto è segreto!”, cancellando così ogni mio tentativo, anche se infantile, di discutere di Politica con lui. Questo breve aneddoto personale racconta modalità quotidiane in cui la relazione tra segretezza e privatizzazione del voto si traduce in mancanza di dibattito politico, nonché il mio approccio al progetto nel quale le cabine elettorali non sono indagate soltanto in quanto simbolo di un certo rapporto con la partecipazione alle decisioni governative, ma anche come architettura che praticamente contribuisce a dare una forma specifica a questa relazione».
Come hai condotto il lavoro d’archivio e quali sono stati i passaggi decisivi?
«Dal 2021 ho iniziato a lavorare su un archivio personale di immagini di cabine di diverse nazioni, sia cercando di raggiungere ove possibile dal vivo sedi elettorali nei paesi che mi sono trovata a visitare, sia attraverso una ricerca più trasversale documentale on/offline. Da queste immagini ho sviluppato una sorta di tassonomia allo scopo innanzitutto di evidenziare l’approccio solitario, uniforme e costitutivo del sistema di rappresentanza politica liberale, e poi di rintracciare le peculiarità materiali di queste architetture temporanee. Nell’immaginario del progetto le tipologie di cabine individuate ossia “autoportanti”, “multiple”, “in appoggio”, sono accostate ad altrettanti tipi di persone, e i materiali e le forme specifiche che rappresentano piccole variazioni nella generale standardizzazione, a caratteri sia personali che “nazionali”. Ho di conseguenza estrapolato da questa ricerca diversi elementi che ho tradotto in 5 sculture differenti che sono collocate in mostra e che costruiscono relazioni con i corpi delə visitatorə. Un racconto di questo “archivio” elettorale è presente in forma di poster/scheda disponibile nello spazio espositivo».
Per capire insieme la portata, anche storica oltre che estetica, di questo lavoro, su un ipotetico asso ai cui estremi si collocano la realtà e la rappresentazione, cosa resta? E in che direzione andrai ora?
«Questo corpus di lavori rappresenta per me un tentativo di mise-en-image della solitudine coerente con la mia pratica attraverso la quale sto cercando di esplorare la materialità degli stati percettivi ed emotivi che possono scaturire da determinate caratteristiche dello spazio fisico e sociale. L’intenzione è continuare questo lavoro con una prospettiva sempre più transmediale e di ricerca».
Vorrei per chiudere proporti queste parole di Haruki Murakami «Con tutte le persone che vivono su questo pianeta, e se ognuno di noi cerca qualcosa nell’altro, perché alla fine dobbiamo essere così soli? A che scopo? Forse il pianeta continua a ruotare nutrendosi della solitudine delle persone?», tu come risponderesti a queste domande?
«Rispondo con una provocazione: forse proprio che siamo diventatə tuttə così solə che il pianeta potrebbe smettere di ruotare? Durante la mia ricerca mi sono avvicinata al concetto di solitudine come “worldlessness” (la “mancanza di mondo”) coniato da Hannah Arendt per indicare proprio quello stato d’animo che provano gli individui privati della loro esistenza politica ed esclusi dal nesso significativo delle relazioni che costituiscono il mondo comune. Questa esclusione è causata da un sistema che sta portando evidentemente al collasso oltre che personale anche sociale e ambientale».