Il MARCA – Museo della Arti di Catanzaro ospita una personale di Beatrice Gallori, originale e deciso profilo femminile nell’attuale panorama artistico italiano. “Codex”, titolo che sintetizza l’ultimo sigillo espressivo dell’artista pratese, è approdato nel capoluogo calabrese con la curatela di Luca Beatrice e grazie alla fortunata collaborazione tra la Fondazione Rocco Guglielmo, l’Amministrazione Provinciale di Catanzaro, le gallerie Fabbrica Eos di Milano e Aria Art Gallery di Firenze.
Ironicamente, Barnett Newman etichettò la scultura come una sorta di ostacolo contro cui si inciampa di spalle, quando si indietreggia nello spazio necessario all’osservazione di un quadro. Oggi però, fuori dall’umorismo anche romantico di questa battuta passata alla storia e reiterata come un manifesto ideologico nell’eterno divario tra i generi, non la scultura ma l’arte tutta – come risultante di un’ibridazione perfetta – è di sicuro un ostacolo. Lo è da quando, svincolatasi dal lirismo rappresentativo, domina la verità con una vocazione più che teatrale, non scenica ma quasi di sintesi dello spazio-vita. Da quando l’esercizio di replicare la realtà è stato sostituito dalla necessità di indagare il reale. È un ostalo per il consueto ordine conoscitivo perché obbliga ad andare oltre per superarlo; obbliga il fruitore a confrontare la propria fisiologia della percezione e del movimento con un’alterità che pure, intimamente, gli appartiene.
Lo dimostra a pieno titolo questa esposizione di Beatrice Gallori, già a partire dalla prima sala, in cui le sue “Bio_sphere” – un’installazione di lamine in acciaio di varie dimensioni – fluttuano nell’ambiente, ritmandolo. L’acciaio così modellato, opacizzato, assottigliato e piegato a una dialettica del pieno e del vuoto – come anche nella serie “Life_Code” e in “Neutron”- restituisce una sensazione di leggerezza che non gli è famigliare, di permeabilità all’aria, alla luce, allo sguardo.
In un gioco di forze che vitalizza e anima la materia metallica dall’interno, piccole cellule, con un movimento di liberazione, rompono la superficie lasciando l’impronta perfettamente sferica del loro passaggio. Un motivo, questo del passaggio, che è filo-conduttore nella produzione che la Gallori presenta al Marca, e che si cristallizza principalmente in due segmenti temporali: il prima, in cui la spinta verso l’esterno non incrina ma deforma; il dopo, in cui l’unità della superficie è già stata interrotta. Un passaggio che riguarda anche l’artista più da vicino, definisce il suo approccio ancora più fisico, corporeo, e spiega la scelta di materiali ben caratterizzati e fino ad ora inesplorati – dall’acciaio al marmo.
Minimalista ma anche informe, extralinguistico, il Codice di Beatrice Gallori è un passepartout per un universo materico in continua evoluzione ed espansione, in cui la molteplicità dei valori plastici è subordinata allo svelamento di una forza sottesa. Nell’installazione “Trans”- enorme cellula in polimero e plexiglas – la superficie sferica estremamente corposa, opaca, viene interrotta da un sezionamento che ne rivela l’interno. Una corrispondenza di riflessi ne mette in luce l’anima frammentaria, scomposta in una sequenza di macchie.
Se la forma è il limite visibile che si dà alle cose per nominarle, la macchia è il sintomo della natura sostanziale della materia, il magma primigenio che le abita dall’interno. Il passaggio dalla forma alla sostanza è reso possibile, oltre che da un’apertura concreta e metaforica, anche da una conciliazione delle opposizioni, che Beatrice Gallori sviluppa in tutto il percorso espositivo. Così come in “Cell-Code”, sulla cui superficie specchiante e convessa si aprono delle concavità dalla porosità inaspettata.
Quello che Beatrice Gallori offre al pubblico del Marca è un percorso che a partire da queste intenzioni arriva alla consapevolezza e alla pacificazione dei contrasti interiori ed esteriori, attraverso un’esperienza estetica piena e appagante. Un’esperienza delle cromie fortemente pigmentate e delle zone acrome, del rosso passionale e repulsivo e del blu rasserenante ed inclusivo, del bianco e del nero, della lucentezza e dell’opacità.
Passando dalla cellula come unità di informazione biologica, il corpo-materia si sottopone a una continua trasformazione in grado di far trapelare, forse anche di comunicare più esplicitamente, l’energia circolare e inesauribile che anima la natura, creando una pluralità di identità. Una metafora della vita che si rinnova e si diversifica a partire da una genitrice, che regala al fruitore gli input per un’interpretazione della realtà visibile più libera, meno intransigente, più improntata a metabolizzare il cambiamento e la diversità, a viverli come spinta ad un adattamento sempre possibile, per il presente e per il futuro.
Una riflessione più che necessaria, dopo anni in cui, dal surriscaldamento climatico alla realtà straniante di una pandemia globale, siamo stati chiamati a rivedere e modificare tutto il nostro apparato di consuetudini e certezze; in cui abbiamo appreso che l’iper-tecnologizzazione non ci ha resi totalmente immuni, che la sovrabbondanza di conoscenze e immagini non ci ha resi davvero informati e ipermetropi. Che la vastità dell’universo fenomenico passa sempre e comunque dal dominio di una microrealtà che non vediamo.
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